Girl Power e Sud America: il vento caldo della Berlinale 2009
In molti l’hanno definito un Festival fiacco e privo di grandi film. Forse è vero. Probabilmente sulla carta la 59° edizione della Berlinale prometteva meglio di quanto poi è risultato realmente. Eppure bisogna rivedere questo giudizio, perché potrebbe risultare troppo affrettato e superficiale.
E’ innegabile che il concorso non presentasse titoli di grande spicco, così come che non ci abbia regalato oggettivi capolavori. Ma forse è proprio in questo aspetto della rassegna che va ricercato il suo fascino e la concretezza della sua riuscita.
Il Festival di Berlino ha proposto un programma, soprattutto nella competizione, che è riuscito ad avvicinare cinema americano di impatto anche commerciale a piccoli prodotti europei e film di cinematografie minori. I grandi autori - a parte Frears, Ozon e Wajda – sono stati quasi tutti relegati fuori concorso o nelle sezioni collaterali.
Ecco, questa linea della direzione artistica, inevitabilmente, non può che indirizzare il livello del concorso ad una medietà della qualità artistica. Medietà, però, solo apparente. La convinzione di aver assistito ad un’importante manifestazione cinematografica non eccezionale nel suo complesso è dovuta infatti non tanto alla qualità reale dei film, quanto a quella percepita. Un po’ perché in molti casi si trattava di opere prime e seconde che, pur presentando un evidente talento, lasciavano denotare ancora qualche segno di inesperienza, un po’ perché, dando spazio ad universi cinematografici internazionalmente nuovi, si prova ancora una leggera fatica a comprenderne in pieno la loro essenza.
Partendo da questo discorso è giusto dunque escludere la fiacchezza dalle qualità da affibbiare a questa manifestazione. E’ infatti troppo facile realizzare un festival gradito a tutti puntando soprattutto su opere di registi affermati, di autori di sicura qualità. E’ invece impresa assai ardua confezionare un festival non deludente che cerca di dare visibilità a nuovi autori emergenti o poco noti in campo internazionale. Ciò non vuol dire snobbare chi da anni realizza grande cinema e che di esso ha scritto e scriverà pagine di storia. Anzi. Berlino ci ha ricordato l’eleganza di Chabrol, la poesia di Angelopoulos, l’impegno fanta-sociale di Costa-Gravas, il mestiere di Stephen Daldry, le perfette “confezioni” in costume di Stephen Frears, l’eterna carriera di Manoel De Olivera e del nostro Ermanno Olmi. Ha però semplicemente scelto di non lasciarli concorrere (escluso Frears) e di lasciare spazio al nuovo che avanza, al nuovo da scoprire.
Ciò ovviamente comporta tanti rischi, ma come ci insegna l’esperienza, non rischiando non si ottiene mai nulla di buono. Ed è per questo che ringraziamo la 59° edizione della Berlinale. Per averci sorpreso, per averci fatto discutere, per averci fatto interrogare e riflettere su opere, tematiche e situazioni sociali poco trattate o comunque solitamente escluse dal cinema mainstream. Dobbiamo essere grati a tutti i selezionatori soprattutto per essersi finalmente decisi a guardare verso l’occidente americano senza pensare che a sud del Messico non esista solo il Brasile o l’Argentina. Ed alla fine, questo ampliamento dell’orizzonte visivo dei selezionatori è risultato l’elemento vincente del festival. Vincente nel vero senso della parola: infatti le opere che hanno realmente trionfato nella competizione, conquistando critica, pubblico e giuria sono state La Teta Asustada della peruviana Claudia Llosa e Gigante, opera prima dell’uruguaiano Adrian Biniez. Due film veramente interessanti, sorretti da grandi interpretazioni mai sopra le righe e pregni della cultura e della bellezza dei rispettivi pesi d’origine. Due film completi costruiti su un equilibrio eccezionale tra forma e contenuto, che non si presentano come prodotti perfetti, ma che al contrario evidenziano le acerbità di due registi che si devono ancora formare stilisticamente. E’ proprio la loro imperfezione che li ha portati ad un gradimento quasi unanime e che li ha resi capaci di emozionare il pubblico della Berlinale.
Alla fine, dunque, il verdetto della giuria presieduta dall’attrice Tilda Swinton è sembrato giusto e ben studiato al fine di poter accontentare tutti. Tutti i migliori film del concorso hanno ottenuto almeno un premio e nessuno si può considerare deluso da queste scelte. La Teta Asustada, come detto, ha vinto meritatamente l’Orso d’Oro; Alle Anderen film tedesco diretto da Maren Ade, ha diviso il premio della giuria con Gigante ed ha fruttato l’Orso d’Argento alla sua ottima protagonista; il premio per la miglior interpretazione maschile non poteva che andare allo strabiliante Sotigui Kouyate del bellissimo London River di Rachid Bouchareb ed il premio per la miglior sceneggiatura è andato a The Messenger, opera sulle conseguenze della guerra in Iraq. Dai premi più importanti è rimasto purtroppo escluso il toccante e potente Katalin Varga, ma il film è stato comunque ricompensato dal riconoscimento speciale per il contributo artistico nel sound design (giustamente assegnatogli).
Insomma, un “palmares” ben suddiviso e, come ogni festival che si rispetti, anche dal sapore politico e dall’importanza sociale e culturale.
Innanzitutto bisogna sottolineare la grande presenza, già sulla carta, del gentil sesso in questo festival, del Girl Power, che molte volte viene sottovalutato. Abbiamo infatti assistito ad una Michelle Pfeiffer eterea in Cherì di Frears, abbiamo amato Brenda Blethyn, eccezionale nel film di Bouchareb, abbiamo nuovamente apprezzato Reneè Zellweger, ironica in My One and Only, ci siamo fatti avvolgere dal grande cast femminile di Happy Tears (Demi Moore, Ellen Barkin, Parker Posey), e ci sono rimasti impressi i volti delle intense protagoniste di Lille Soldat, Alle Anderen e Katalin Varga. Ma soprattutto - cosa più importante – erano presenti in concorso ben quattro film diretti da donne: Rage di Sally Potter, gli stessi Lille Soldat di Annette K. Olesen e Alle Anderen di Maren Ade, ed infine il vincitore La Teta Asustada di Claudia Llosa.
Se il Girl Power viene solitamente sottovalutato, in questo frangente la giuria, presieduta non a caso da una donna straordinaria, gli ha rivolto l’attenzione meritata. Ma d’altronde da una selezione così incentrata sulle donne la lista dei vincitori non poteva – e di ciò siamo molto contenti – non rispecchiare questa tendenza.
Per quanto riguarda il taglio politico del verdetto della giuria, esso appare evidente guardando semplicemente ai paesi di provenienza delle opere premiate ed agli argomenti trattati: il dramma sociale del Perù, le donne dell’Iran, l’America post-Iraq, la vita di Montevideo in Uruguay, integrazione e terrorismo (London River). Certo, poi c’è la Germania del film di Maren Ade, ma ovviamente i due premi che ha ricevuto non hanno alcun tipo di valenza politica. Essi risultano però importanti perché rafforzano ancor di più il ruolo che la cinematografia tedesca sta occupando in ambito internazionale già da diversi anni.
Se per il Concorso abbiamo speso tante parole, per Forum e Panorama non si può fare altrettanto. Se la prima sezione non ha mai dato veri segni di vita, manifestandosi persa in un programma troppo variegato e forse confusionario, Panorama ha invece salvato il livello medio della sua selezione grazie alla presenza di alcuni (pochi) film veramente interessanti (Nord – vincitore del premio Fipresci, lo splendido documentario Fig Trees), al ritorno in grande stile di Catherine Breillat con Barbe Bleue ed all’apertura con Human Zoo, esordio alla regia di Rie Rasmussen - film estremamente violento e pieno di difetti ma sicuramente di grande impatto.
Se fossimo veramente decisi a chiedere di più per la 60° Berlinale, vorremmo proprio che queste due sezioni ci offrissero una maggiore qualità.
Antonio Valerio Spera