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Gli incredibili

Pubblicato il 18 dicembre 2004 da Alessandro Izzi


Gli incredibili

Già con Il gigante di ferro Bird aveva cominciato, in un certo senso, un discorso tutt’altro che banale sul significato della diversità e dell’eccezionalità nella realtà contemporanea. Nella storia di un’amicizia virtualmente impossibile tra un bambino ed un robot, il regista aveva confermato infatti, prima di tutto, una vocazione verso un racconto esemplare, chiaramente centrato sull’etica di una morale chiara ancorché non linearmente manichea e il desiderio di far passare tra le maglie del racconto un che di autobiografico. Dietro le difficoltà di relazione dell’individuo eccezionale nei confronti degli altri, dietro la situazione straordinaria che, improvvisamente coinvolge un personaggio a tutta prima normale fino a trascinarlo in un mondo altro che lo pone krogerianamente a cavallo di due realtà (quella umana e quella robotica) respirava tutto il senso di difficoltà di un artista preso tra le preoccupazioni della sua vita quotidiana e i mondi ulteriori prodotti dalla sua fantasia che reclamavano sempre un’attenzione particolare, spesso maggiore di quella concessa alla vita così detta normale. Ora, con Gli Incredibili, questo discorso trova una sua geniale riformulazione attraverso le possibilità produttive della Pixar. Rispetto al film d’esordio, Gli incredibili, lavora prima di tutto sull’accumulo, sul moltiplicarsi di personaggi e punti di vista. Laddove, infatti, Il gigante di ferro era tutto incentrato sul racconto dell’amicizia tra due soli personaggi messi in urto drammatico con un coro di “altri” che dovevano andare a costituire la così detta “normalità” borghese, il nuovo film si vuole, invece, tutto impostato su un novero di personaggi estremamente variegati, ciascuno a suo modo obbligato a convivere con la propria palese eccezionalità e con l’aspirazione ad un’integrazione quanto più possibile indolore con il mondo borghese della provincia americana (o viceversa). A partire da Mr Incredible, super eroe del passato costretto ora ad un pensionamento precoce e ad un lavoro anonimo nel mondo assai grigio degli impiegati di un società di assicurazioni, passando per la moglie perfettamente adagiata sul suo desiderio di una famiglia normale, ma pronta a rimettere il costume del suo passato eccezionale per salvare (maternamente) l’unione della propria famiglia, fino alla figlia adolescente che sogna l’amore, ma si nasconde dietro una cascata di capelli corvini nell’anonimato scomodo della bruttina della classe, e al fratellino superveloce che sfoga il suo bisogno di agonismo in una serie di scherzi agli insegnanti, il film è tutto un profluvio di situazioni descritte con la minuzia dell’osservatore disincantato e partecipe al tempo stesso. Ma al di là della magia sicura degli effetti speciali e della storia tout court che regala brividi di esaltazione e di cinetismo sfrenato (sublime la super rapidità di tutto il secondo tempo) è proprio nel realismo psicologico con cui sono trattati i vari caratteri a prendere corpo l’originalità del significato di quest’ultima fatica tecnologica della Pixar. L’impiegato che sogna un presente migliore alla luce di un passato ricco di promesse è, infatti, qualcosa di più di uno stereotipo narrativo già verificato in un numero incalcolabile di film del passato, ma nasconde una critica dell’attuale società del lavoro con la sua spersonalizzazione dell’impiego e con la sua visione a comparti stagni di una ideale catena di montaggio umana. Assume allora un significato più che realistico l’aspirazione all’eccezionalità di un personaggio costretto ad una “normalità” che è, prima di tutto, la mostruosità del formicaio e l’esatta negazione del sogno americano. In senso inverso, ma in maniera non meno esemplare trova poi posto la figura della ragazza che sogna il mimetismo da carta da parati e l’invisibilità (i superpoteri sono quindi il risultato prima di tutto di una condizione esistenziale comune a molti teen agers non solo americani): una normalità a fronte di un’eccezionalità vissuta come condanna che è l’eccezionalità solipsisitica di tutti gli adolescenti che vivono in dramma le mutazioni del proprio corpo e della propria psiche e che è già stata cantata da Tim Burton nei suoi film più belli. Tra questi due poli estremi, nello spazio in cui prendono corpo le figure degli altri personaggi di questa fantasia multicolore, si manifesta alla fine, non tanto l’esaltazione della normalità a fronte dell’eccezionalità, né la celebrazione del supereroe contro il borghese abbruttimento della società dei consumi, ma l’invito ad essere se stessi “senza se e senza ma” sempre e comunque. Una vocazione magica, quella che si avvera nella pellicola, che ha più cose in comune con Big Fish di quante si possa immaginare a tutta prima e dove la favola, costruita con la perizia di un cinema intessuto di infiniti riferimenti al cinema precedente (un vero e proprio caleidoscopio di situazioni e citazioni) diventa il veicolo per capire meglio e di più il mondo che ci circonda. Non certo roba per soli bambini.

(The incredibles); Regia: Brad Bird; Sceneggiatura: Brad Bird; fotografia: Janet Lucrov, Patrick Lin, Andrew Gimenez; disegno e animazione: Tony Fucile, Teddy Newton, Alan Barillaro, Steven Clay Hunter; musica: Michael Giacchino; interpreti edizione originale: Craig T. Nelson, Holly Hunter, Samuel L. Jackson, Brad Bird; voci italiane: Laura Morante, Amanda Lear; produzione: John Walker, John Lasseter; distribuzione: Buena Vista

[dicembre 2004]

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