Go with me
A distanza di due anni dalla presentazione fuori concorso alla 72° edizione del Festival di Venezia approda oggi nelle sale italiane Go with me, thriller d’atmosfera ambientato nelle splendide foreste canadesi diretto da Daniel Alfredson e interpretato da Anthony Hopkins, Ray Liotta e Julia Stiles. Quest’ultima veste i panni di Lillian, giovane donna da poco tornata a vivere nella sua città natale, la cui serenità viene turbata dal malintenzionato Blackway, ex poliziotto conosciuto ormai come il criminale di zona dedito prevalentemente allo spaccio di droga. Diventata la vittima prediletta delle sue insistenti attenzioni, Lillian decide però di difendersi dallo stalker e senza l’appoggio della polizia tenta la via della giustizia privata. La aiuteranno in questo due taglialegna del paese: l’anziano Lester, particolarmente motivato nel colpire il criminale Blackway, e Nate, giovane ritardato dal cuore buono e dai muscoli ancora più buoni.
Con uno stile rigoroso e una narrazione scarna Daniel Alfredson costruisce la sua opera di genere seguendo le tradizioni di un cinema antico la cui struttura si regge su se stessa senza bisogno di sostegni ulteriori. Go with me è infatti un film diretto, lineare il cui sviluppo nulla concede alle distrazioni ma si concentra sull’elemento portante del racconto: la caccia all’uomo. L’intreccio, asse portante del genere in questione, lascia spazio per una volta alla carica emotiva del film che, per questo, si distanzia in corso d’opera dai cliché del thriller per inseguire le vie di un western sui generis. È la vittoria della pancia sulla mente, della reazione sul ragionamento. Ed è forse per questo che il film si risolve prima del dovuto. Perché l’emotività avvicina lo spettatore alla soluzione prima di quanto possa fare la mente. Senza troppi indugi, cambi di direzione, ribaltamenti o colpi di scena lo spettatore si ritrova all’apice della narrazione con un film gettato via nella prima parte e risolto rapidamente nel finale. Tutto per una sete di vendetta da assecondare nella maniera più sbrigativa possibile, anche a discapito di quella suspence che tanta parte occupa nei thriller classici. Diversi sono i motivi di tale approccio. In primo luogo perché Blackway non è un serial killer sopraffino (che richiede tempo) ma un rozzo criminale di campagna, goffo e volgare (che deve essere abbattuto), in secondo luogo perché l’ambientazione è troppo severa e rigida per nascondere le manie di una mente contorta e malata (non a caso Alfredson la considera come un altro protagonista del film). Quello che essa accetta come unico gioco nel proprio campo di battaglia non è la tattica ma il corpo a corpo, il contatto, il duello tra bene e male. Rapido e sanguinolento.
Lontano dai risultati prodotti da Sam Peckinpah ad esempio (solo per citarne uno), autore capace di spremere dalle viscere le proprie storie e portarle ad un livello di potenza senza eguali, il freddo Daniel Alfredson tenta allo stesso modo la via della scarnificazione narrativa senza riuscire però a tradurre al meglio le proprie intenzioni di cinema. Perché di buone intenzioni se ne vedono nel film, ma sembrano essere smorzate da una poca incisività ed una drammatizzazione approssimativa degli eventi e dei personaggi. Pur apprezzando la cruda rappresentazione della violenza purificatrice lo spettatore trova difficoltà a dare una raffigurazione completa e distinta del male, mentre dall’altro lato vede il bene, lo riconosce ma difficilmente entra in empatia con esso nonostante la rappresentazione iconografica dei protagonisti riporti alla mente la trinità cattolica (padre, figlio e spirito santo). Alcuni evidenti difetti di sceneggiatura della prima parte contribuiscono inoltre ad accentuare questa mancanza di empatia tra narrazione e spettatore, lo isolano nella propria visione in attesa di un finale privo di climax (ricordate invece la potenza di Cane di paglia?) in cui, in nome della freddezza professionale di Daniel Alfredson, la risoluzione accade in maniera sommessa e senza strappi clamorosi. Ne rimangono invischiati anche i protagonisti. Ray Liotta e Anthony Hopkins sembrano dei timidi imitatori di loro stessi alle prese con una rappresentazione da "wild west shows" in cui si trascinano in scena senza raggiungere alcuna profondità o fine ultimo. Se non quello meramente professionale di accumulare presenza scenica.
(Blackway) Regia: Daniel Alfredson; sceneggiatura: Joe Gangemi, Gregory Jacobs - tratto dal libro di Castle Freeman Jr.; fotografia: Rasmus Videbaek; montaggio: Håkan Karlsson; musiche: Klas Wahl, Anders Niska; scenografia: James Hazell; costumi: Jenni Gullet; interpreti: Anthony Hopkins (Lester), Julia Stiles (Lillian), Ray Liotta (Blackway), Alexander Ludwig (Nate); produzione: Enderby Entertainment, Gotham Group; distribuzione: Microcinema; origine: USA; durata: 90’.