Grigris
In concorso a Cannes per la seconda volta (dopo essere già stato in competizione a Venezia nel 2006), il ciadiano Mahamat-Saleh Haroun si conferma una delle voci più autorevoli del cinema africano contemporaneo. La sua estetica segue le tradizionalissime coordinate della necessità tragica; a differenza di un Idrissa Ouedraogo, però, non le conduce fino alle loro estreme conseguenze, ma si ritaglia a partire da esse uno strano e idiosincratico partito preso. Esso consiste in definitiva in una sorta di allentamento delle maglie della concatenazione narrativa. Gli ingranaggi causa-effetto del Fato, insomma, si slargano di fatto, si gonfiano fino a scoppiare e ad aprire quindi una sorta di via di scampo dall’ineluttabilità: una sua revoca. Carrelli apparentemente immotivati, lunghe inquadrature che insistono su un personaggio senza la minima ansia drammaturgica, tendenza a fissarsi sulla scena nel senso dello “spessore” più che in quello della progressione temporale, percorsi (a piedi, in macchina a moto) seguiti lungamente: un indulgere nell’attesa diametralmente opposto a qualsiasi ipotesi di suspense.
Anche qui, il Fato sembra assai presto dover serrare la propria morsa su Grigris, virtuosistico fotografo-ballerino con una gamba fuori uso e un urgente bisogno di soldi (debiti, padre malato). Il crimine (il contrabbando di benzina, con cui finisce per implicarsi) paga, ma non abbastanza: si vede costretto a truffare i propri boss per “arrotondare”. Essi però lo scoprono facilmente, e lo minacciano di morte. È qui, però, che le maglie della Necessità tragica, rinverdite da migliaia di noir tra i quali parrebbe a lungo che dovremmo annoverare anche Grigris, si allargano fino a strapparsi: del tutto inaspettatamente, la fuga del protagonista fuori dalla tentacolare città, nel minuscolo e poverissimo villaggio della donna amata (una prostituta), riesce.
L’utopia bucolica presso cui la coppia di protagonisti trova la salvezza sigilla un film letteralmente poroso, che si prende il tempo di interessarsi più a quello che transita davanti alla macchina da presa, alla sua consistenza fisica, che alla storia che racconta. Parrebbe quasi programmatica, in questo senso, la lunga inquadratura (completamente immotivata dal punto di vista narrativo) in cui assistiamo in tempo reale allo sviluppo della fotografia dell’amata scattata da Grigris, al suo progressivo e lento venire alla luce sulla pellicola: come se la salvezza, prima dell’arrivo di qualsiasi deus ex machina, risiedesse nell’apparire stesso delle cose, al quale è dunque bene tributare tutto il tempo e l’attenzione possibili.
(Grigris) Regia e sceneggiatura: Mahamat-Saleh Haroun; fotografia: Antoine Heberle; montaggio: Marie-Hélène Dozo; interpreti: Souleymane Deme, Anais Monory, Cyril Guei, Marius Yelolo, Youssouf Djaoro; produzione: Pili Films, Goi Goi Productions, France 3 Cinéma; origine: Ciad, Francia; durata: 101’.