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Habibi

Pubblicato il 1 settembre 2011 da Alessandro Izzi


Habibi

La terra è un corpo attraversato da cicatrici e ferite.
Alcune sanguinano ancora per le esplosioni di violenza troppo recenti. Altre sono secche come deserto, riarse e prosciugate dal sole troppo abbagliante della Palestina. Nessuna si è rimarginata. Tutte, anzi, si offrono allo sguardo di una macchina da presa che le attraversa, le percorre come fossero strade senza uscita.
Un intrico di vicoli ciechi domina un paesaggio che è esso stesso racconto. Forse il più importante, senz’altro il più importante di Habibi, un film che mette in scena destini già segnati. Nuovi eppure vecchi come la terra che li ospita.

Intanto c’è la storia d’amore. Quella che unisce Layla a Qays: studenti universitari che l’assedio di Gaza da parte di Israele separa inesorabilmente. Una coppia di amanti che parla col silenzio ieratico d’un teatro d’altri tempi (il Majnun Layla è un testo risalente al settimo secolo spesso messo in scena in Arabia), con l’incanto contratto delle pause che separano i suoni ebbri della lirica amorosa. Lei è destinata a prossime nozze con un medico che viene dall’America dove ha studiato. Lui, costretto a vivere nel campo profughi, lavora nelle costruzioni, ma è un poeta che legge poesie e sogna di portare bellezza in un mondo martoriato. Le loro strade già segnate sono parecchie spanne al di sotto dei loro sogni. Si accontenterebbero di stare insieme anche lontano, anche in Olanda, ma il destino non regala loro neanche una via di fuga. I canti d’amore che lui le scrive sui muri di Gaza, improvvise oasi di bellezza che danno un senso ai ruderi e una dolcezza ai muri ungarettiani dilaniati dalle bombe, destano scandalo in città ed ottengono come unico risultato l’affrettarsi delle nozze della ragazza al centro di così poca lusinghiera attenzione erotica. Oggetto di scandalo per gli stessi palestinesi, il loro amore non può non finire sotto i tacchi degli israeliani che lo calpestano famelici di terra.
Senza sbocchi, in Habibi, è anche la strada di Walid, fratello di Layla, che vede morire l’amico colpito da una pallottola vagante e finisce nelle reti di Hamas che lo convincono che anche Rocky è sionista e che l’unico eroe cui guardare con ammirazione è il martire che dona la sua vita all’ideale della morte. La storia più piccola di un trittico di vite schiacciate dalla guerra.

Girato nei territori con donazioni e senza una produzione grande alle spalle, Habibi è un film piccolo eppure potente. Struggente nel racconto della storia d’amore, vivido ancorché forse semplicistico nel risvolto politico che lo attraversa, polemico nel suo sguardo su una terra martoriata. Il suo pregio è nello stile cameristico, nella sua claustrofobia a cielo aperto per raccontare un mondo soffocato da conflitti. Il suo difetto nei momenti in cui si fa l’occhiolino al pubblico occidentale soprattutto nel versante amoroso che riesce però ad essere erotico pur nelle ellissi che non mostrano neanche un bacio prima della santificazione del matrimonio.
Figlio d’altri tempi, il film racconta i nostri e supera a volo d’aquila gli angusti confini del conflitto israelo-palestinese per cercare gli orizzonti della fiaba universale. Riuscendoci spesso.


CAST & CREDITS

(Habibi Rasak Kharban); Regia: Susan Youssef; sceneggiatura: Susan Youssef; fotografia: P. J. Raval; montaggio: Susan Youssef, Man Kit Lam; musica; Menno Cruijsen; interpreti: Maisa Abdelhadi (Layla), Kais Nashef (Qays), Yussuf Abu-Warda (Al Mahdi), Amer Khalil (Madre di Qays), Najwa Mubarki (Layla’s Mother), Jihad Al-Khattib (Walid), Adham Nu’Man (Rabie); produzione: S.Y. FILMS; origine: Palestina, Olanda, Emirati Arabi, Stati Uniti, 2011; durata: 78’


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