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Hachiko - Il tuo migliore amico

Pubblicato il 1 gennaio 2010 da Lorenzo Vincenti


Hachiko - Il tuo migliore amico

Questa versione americana della famosa storia del cane giapponese Hachiko inizia con una scena in cui alcuni giovani studenti di una classe statunitense vengono chiamati ad esporre uno dopo l’altro la descrizione di un classico eroe di tutti i giorni. Tutto sembra procedere normalmente fino a quando però, uno dei ragazzi dell’aula individua nella figura di un semplice cane il vero eroe della sua vita, colui che più di tutti gli ha insegnato i valori puri dell’esistenza come il rispetto, la lealtà, la fedeltà e l’amore incondizionato. Mentre il ragazzo è intento a scrivere il nome del cane sulla lavagna, l’intera classe scoppia in una risata di scherno, convinta che quanto sentiranno di lì a poco potrà apparire quanto meno assurdo. Anche lo spettatore rimarrebbe interdetto in realtà se non conoscesse il legame tra la dimensione finzionale di questa rappresentazione e le incredibili dinamiche di una storia realmente accaduta in Giappone agli inizi del secolo scorso. Una vicenda pazzesca, dai risvolti fiabeschi che coinvolse l’opinione pubblica non solo giapponese e che grazie a questa reinterpretazione come al solito puntuale del cinema statunitense ha la possibilità oggi di commuovere le platee di tutto il mondo. La storia, raccontata grazie al ricorso ad un lunghissimo flashback lanciato durante il precedente prologo introduttivo, è di una semplicità esagerata e basa la propria essenza, ovviamente, sul legame nato tra il nonno del giovane alunno (il dottor Parker alias Richard Gere) e un piccolo cagnolino di razza akita (una razza giapponese pregiatissima, utilizzata addirittura dai samurai) trovato un po’ per caso (o per gli effetti del destino) dall’uomo sulla banchina di una stazione ferroviaria. Altrettanto semplicemente essa procede in avanti mostrando la progressione di un legame affettivo, gli effetti di questo sulla famiglia del Dott. Parker e l’assimilazione di una nuova routine giornaliera da parte del professore universitario, piacevolmente costretto ogni giorno ad essere accompagnato alla stazione dal proprio fedele amico e ad essere ripreso (alle cinque in punto) dallo stesso al momento del ritorno a casa dal lavoro. Il film in questa prima parte sembra procedere in maniera conciliante, tra momenti di incredibile energia e immagini morbide quanto il pelo dell’affettuoso amico. Fino al momento in cui però un clamoroso quanto drammatico imprevisto non interviene a smorzare il carattere gioioso dell’intero racconto gettando la visione dello spettatore nello sconforto più totale. Il professore, infatti, durante una delle sue lezioni, muore a causa di un infarto abbandonando i suoi consueti affetti e lasciando “Hachi” nel ricordo di quell’unione così intensa. Il tenero cane, sconsolato dal fatto di non vedere più il suo padrone uscire dalla porta della stazione per far ritorno a casa, abbandona l’idea di dover vivere con la figlia dell’uomo, di dover lasciare quella routine che, tanto, lo teneva legato al suo amico. Ma soprattutto egli rifiuta ogni tipo di soluzione che possa distrarlo dal suo intento: andare ogni pomeriggio ad attendere sul piazzale antistante la stazione il ritorno del proprio padrone. Chi, all’epoca dei fatti reali, visse concretamente quella fantastica esperienza, ebbe l’occasione di testimoniare quanto quel gesto divenne a tal punto consuetudinario da ripetersi per ben dieci anni consecutivamente tra la commozione, il rispetto, la partecipazione della comunità originaria di Shibuya. Un rituale toccante e romantico che unito al complesso di quella storia incredibile trova sfogo oggi nel cinema elementare, didascalico, quasi sempre compassato di Lasse Hallstrom. Un cinema silenzioso e tendenzialmente anonimo che usa spesso raccontare storie di questo tipo non affidandosi solamente all’effetto automatico provocato dalla realtà ma optando più per un intervento diretto sulla stessa. Non avremmo in realtà aggiunto molto su un film elementare come questo, su un compitino facile e consueto portato a termine con leggerezza dal regista, se proprio questo suo intervento a dir poco invasivo non avesse operato in maniera poco opportuna sul sottile filo rosso della fruizione spettatoriale. Un intervento puntuale e voluto, portato al cuore dell’obiettivo attraverso un doppio canale: la ricerca di una composizione marcatamente classica dell’intera struttura (montaggio invisibile, movimenti lenti che si confondono nell’anonimato dell’insieme) all’interno della quale operano elementi e scelte stilistiche tese alla sparizione dei meccanismi filmici in favore della preponderanza delle emozioni (in pieno stile Hallstrom) e un tentativo di accentuazione delle stesse attraverso un uso funzionale, o strumentale, del linguaggio filmico (soggettiva del cane, inquadrature finte, troppo attente alla ricerca del sentimentalismo gratuito, una fotografia patinata e caramellosa). Se nel primo caso però ciò si può far rientrare tranquillamente nei canoni del consentito, nella gamma delle scelte attuabili e percorribili da un tipo di cinema mainstream che professa la religione del classicismo cinematografico, nel secondo caso ciò non può essere accettato come il semplice frutto di una poetica ben precisa. A nostro avviso infatti la corruzione del messaggio lanciato dal film ha qualcosa di incredibile, di esageratamente disturbante. Anche inspiegabile tra le altre cose. In primo luogo perché non ci dovrebbe essere mai la necessità di manipolare qualcosa già di per sé efficace ed incisivo e in secondo luogo, cosa ancor più grave per un film del genere, perché tale manipolazione corre il rischio di ripercuotersi fortemente sulla visione dello spettatore (già ampiamente indebolito dagli effetti di una storia che non può lasciare indifferenti) riducendo quest’ultimo ad uno stato di alterità visibile, eccessiva e disturbante. Hallstrom tenta quindi in maniera furbesca o truffaldina di scardinare il corso degli eventi, cercando in ogni modo di lasciare il segno del suo intervento opportunista e patetico sull’assimilazione di un’opera che avremmo preferito restasse in una condizione più intima e delicata, in una zona indefinita, forse meno illuminata, più di nicchia. Un limbo forse meno eclatante ma nel quale però le storie raccontate non sentono il bisogno di abbellire la propria semplicità, non si vergognano di mettersi a nudo davanti allo spettatore e nel quale la vitalità non viene e non verrebbe mai svenduta o barattata in nome di una facile mercificazione dei sentimenti. Ci battiamo insomma in difesa delle emozioni pure, scaturite dalla sincerità di un cinema onesto. Ci battiamo per la necessità di vedere in futuro un film interessante e potenzialmente forte come Hachiko, scevro da ogni gratuito orpello sentimentalistico.


CAST & CREDITS

(Hachiko: A dog’s story) Regia: Lasse Hällstrom; sceneggiatura: Stephen P. Lindsey; fotografia: Ron Fortunato; montaggio: Kristina Boden; interpreti: Richard Gere, Sarah Roemer, Joan Allen; produzione: Grand Army Entertainment, Inferno Distribution, Shochiku Kinema Kenkyû-jo; distribuzione: Lucky Red; origine: USA; durata: 98‘.


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