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Hairspray

Pubblicato il 28 settembre 2007 da Alessandro Izzi


Hairspray

Ridotta alla sua essenza più ultima, la trama di Hairspray (remake del bel film di John Waters, ma più direttamente ispirato ad un recente musical di successo), pur mantenendo la precisa ambientazione anni ’60 del suo modello, ben si presta ad essere un vero e proprio "canto" sugli adolescenti contemporanei.
Protagonista della pellicola è, infatti, una ragazza, al fondo neanche tanto brutta, ma dal cuore d’oro e dal sorriso sempre stampato sulle labbra, che non desidera altro che di poter prendere parte ad uno show televisivo nel quale poter esprimere la sua irrefrenabile voglia di ballare e cantare.

Il materiale per un’immedesimazione di superficie c’è tutto: Tracy, questo il nome della simpatica protagonista, non può essere del tutto omologata al sistema per via della sua corporatura a dir poco robusta. Non risponde in alcun modo ai canoni di bellezza vigenti nel mondo contemporaneo: non è magra, non è slanciata, non ha neanche uno specifico gruppo di appartenenza, un qualche tipo di comitiva con cui uscire la sera (passa le sue giornate a guardare la TV con la sua amica del cuore). Anche il suo nucleo familiare è del tutto out con la madre (un John Travolta simpaticamente en travesti) che non esce mai di casa perché troppo consapevole di essere fatta oggetto di scherno dai vicini per via della sua eccessiva “diversità” e il padre che vive in un mondo tutto suo fatto di giocattoli per bambini e scherzi di carnevale. Eppure Tracy non ha desiderio più grande che quello di essere omologata al sistema. La sua venerazione per il tubo catodico (che non va, però, più in là di una semplice trasmissione locale) è segno di un modo di conformarsi alle norme vigenti che trova la sua espressione nella venerazione che nutre per i capelli cotonati. Anzi, a guardarla bene Tracy non vuole essere come tutti gli altri perché, di fatto, si sente come tutti gli altri e i limiti fisici del suo aspetto e della sua corporatura non possono mai veramente opporsi alla sua energia e alla sua incontenibile voglia di vivere.
Ma questo la porta ad essere cieca nei confronti del mondo che la circonda: di Baltimora, come dimostra la canzone che apre la pellicola, riesce a vedere solo gli aspetti positivi e anche i topi che si incontrano nei vicoli divengono per lei, sia pure solo per un momento, i protagonisti di un piccolo numero da musical. La segregazione razziale con cui viene quasi subito in contatto, quindi, per lei è certo una gran brutta cosa, ma niente che non possa essere risolto con una marcia di protesta e un’apparizione (guarda caso) ancora in televisione.

Insomma Tracy è il perfetto prototipo dell’adolescente di oggi: a scuola non aspetta altro che il suono della campanella che annuncia la fine dell’ora (e in quelle di storia non c’è niente di meglio che un buon sonno ristoratore), a casa c’è solo la televisione a far da maestra di vita rispetto a genitori troppo assenti o troppo fuori sintonia col mondo e le uniche cose che possano somigliare a dei problemi sono solo le cotte adolescenziali con il Link di turno interpretato, in questa edizione, dall’attuale idolo delle ragazze Zac Efron (pare che il suo poster sia ormai nella camera di una ragazza su tre, giusto affianco, qui in Italia, con quello di Scamarcio).
Ed è a questi(e) adolescenti senza storia che, in fondo, si rivolge un film che parte dall’ovvia considerazione che una trama che parla, al fondo, di segregazione e razzismo debba per forza di cose essere, per dirla con gli anglofoni, Timeless (è proprio questo che canta il padre di Tracy alla madre che si sente tradita).

Ma essere Senza Tempo non significa essere Senza Storia e uno dei problemi sostanziali del film è che, nella sua ricerca di astrazioni al fondo un può vuote che adattino il prodotto a tutte le stagioni, finisce per cadere nella trappola televisiva di diventare, appunto, senza Storia.
Del peso della segregazione razziale, dell’orrore del rifiuto per la diversità sia essa legata a differenze fisiche o politiche (si parla anche di minaccia comunista), si dice tutto, ma non se ne fa sentire il tragico peso al pubblico. Tutto resta in superficie nell’ammiccamento di scene che potrebbero avere una forte valenza di denuncia ironica (come quella in cui i bianchi salgono su un autobus di neri e vanno a sedersi in fondo) il cui senso resterà oscuro a molti dei destinatari del prodotto.

Waters aveva scritto Hairspray per denunciare l’orrore della conformazione ad un modello prestabilito e la sofferenza che questa produceva in tutte quelle persone che, per scelta o per necessità, non potevano adeguarvisi. E l’aveva fatto da “diverso” che si porta addosso il peso della sua condizione e non, come invece avviene in questo caso, da omologato che guarda al diverso con condiscendenza e anche un po’ di presupponenza. Si era, per questo, imposto di arpeggiare su quei registri che il buon gusto aveva sempre ritenuto sgradevoli. I suoi personaggi “puzzavano”, erano scomposti, palesemente brutti eppure incredibilmente veri e la loro sofferenza per il non essere accettati bucava lo schermo del finto musical e ci obbligava a scendere a patti con il rifiuto che quasi istintivamente ci prendeva nei loro confronti. Tutto questo poggiava anche, e non poteva essere altrimenti, sul "segno cinematografico" del corpo di Divine (un transessuale nella parte di una madre!) che veniva direttamente da Pink Flamingos e non, come oggi, da La febbre del sabato sera. Un cambiamento di senso, questo, che marca una distanza infinita tra le intenzioni e i risultati.
Era la società il vero mostro di Hairspray versione Waters mentre in questo remake la società appare quasi buona e l’orrore che poteva aver prodotto in passato diventava virtualmente scusabile a fronte di un presente sempre disposto a fare ammenda.

In questo vediamo, forse, il segno del trionfo finale della TV (e il film è già pronto per passare direttamente su piccolo schermo, tagliato com’è con l’accetta di uno scope che ha tanto il sapore del piccolo formato) perché ora "accettare" è diventato di moda e il nero non fa più paura come una volta (semmai a far paura, adesso, qui in Italia, sono solo i romeni pompati al rango di minaccia dal battage dei TG nazionali, ma questa è tutta un’altra storia).
Per questo il film, pur gradevole nella confezione, ci pare, oggi, tristemente innocuo. E per questo tragicamente inutile.


CAST & CREDITS

(Hairspray) Regia: Adam Shankman; soggetto: remake del film di John Waters dell’88; sceneggiatura: Leslie Dixon; fotografia: Bojan Bazelli; montaggio: Michael Tronick; musiche: Marc Shaiman; scenografie: David Gropman; costumi: Rita Ryack; interpreti: John Travolta, Michelle Pfeiffer, Christopher Walken, Queen Latifah, Zac Efron; produzione: New Line Cinema; distribuzione: Moviemax; origine: USA 2007; durata: 117’; web info: sito ufficiale sito italiano


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