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Halloween - The beginning

Pubblicato il 5 gennaio 2008 da Alessandro Izzi


Halloween - The beginning

Dalla maschera all’uomo: questo il motore drammaturgico messo in atto da Rob Zombie nel momento in cui ha cominciato a lavorare sul remake del capolavoro di John Carpenter Halloween. Un percorso rischioso e tormentato perché il pericolo del giustificazionismo è sempre dietro l’angolo e a definire con maggiore chiarezza quelle che potevano essere state le molle primarie dell’agire di Michael Myers (figura assurta ormai ad icona di un intero periodo della storia non solo statunitense) si corre sempre il rischio di fare del mostro una vittima (o un risultato) delle circostanze privandolo, in questo modo, della sua aura mitica, disturbante e terrorizzante.
Carpenter, in questo senso, nel realizzare il suo capolavoro di semplicità e nitore formale, era stato incredibilmente scaltro nell’utilizzo dell’arte dell’allusione. Il prologo della pellicola, divenuto col tempo modello di riferimento per chiunque volesse accostarsi al genere, era un trionfo di “non detti dichiarati” che raccontavano senza definirlo il proprio personaggio. La posizione spettatoriale era, quindi, messa in crisi dapprima dall’adesione inderogabile del suo sguardo con quello dell’assassino e poi dalla consapevolezza che, in questa adesione, si consumava anche una malsana, distrubante fusione tra il massimo principio di colpevolezza (quella di un killer spietato che censurava con la sua azione i giusti istinti sessuali di sani ragazzi di provincia) e il massimo principio di innocenza (perché a guardare e ad ammazzare era un bambino di appena dieci anni). La soggettiva carpenteriana era astorica ed ambigua. Un gesto politico, a dirla tutta, che sovvertiva i luoghi deputati dell’immaginario americano dotandoli di un’aura malevola proprio come quella notte delle streghe in cui si consumava il sinistro fatto di sangue. Ai dolcetti e agli scherzetti dei bambini mascherati si opponeva, così, una visione da incubo di innocenze contraddette. Dalla coppietta pomiciante che portava avanti i suoi illeciti giochi erotici in una camera ancora affollata di bambole (non solo sesso prematrimoniale, quindi, ma anche tra minorenni: il colmo dell’illecito nel perbenismo americano) al bambino lasciato solo al piano di sotto da genitori colpevolmente assenti (il loro ingresso in scena alla fine serve solo a segnare la scoperta dell’identità del mostro), dalla casa visivamente penetrata dal movimento/sguardo del bambino assassino alla maschera sollevata (una sola volta) dal volto dell’orrore, il prologo di Halloween era tutto un tripudio di frasi mezze dette. Le motivazioni dell’agire erano, così, volutamente adombrate dal gesto registico carpenteriano. Si capiva appena che vittima e carnefice erano, in realtà, fratello e sorella. Meno ancora si sapeva della vita del bambino. Certo era che l’organismo familiare in cui tutto prendeva corpo era apparentemente sano: genitori abbienti, una casa che è il sogno di tutta una media borghesia ipocrita e un po’ bigotta, e bambini apparentemente sani. L’orrore nasce, così, nella tranquillità e l’abnorme dimora nella norma. Forse, ci diceva Carpenter, la normalità è la vera maschera e il mostro sta tanto dentro quanto intorno a noi.
Di qui la sublimità della maschera carpenteriana. Nel tripudio colorato dei costumi di Halloween dei bambini la maschera di Michael spiccava nella sua neutralità assoluta fatta di bianco (la purezza ancora una volta assimilata all’abominio) e di nero (il vuoto dell’assenza, quella degli occhi che scompaiono sempre rispetto al pieno della maschera). I due estremi dello spettro unificati dalla linea grigia che disegna i lineamenti di un volto che è un non volto: il simulacro di un uomo che, espressionisticamente, è solo istinto omicida.
Zombie aggiorna questa propensione carpenteriana esaltandola nella sua negazione. Alla maschera mitica associa un tripudio di infinite altre maschere (quella della pagliaccio, presente anche nella versione Carpenter, ma anche le altre ideate da Michael nel manicomio criminale). All’unica azione di smascheramento del vecchio film (quella della fine del già citato prologo) aggiunge tutta una serie di smascheramenti (quelli della madre che vuole vedere il volto del suo “bambino”). In questo modo la maschera assume un valore diverso, contrario alle intenzioni che avevano mosso il modello di partenza. Per Carpenter la maschera di Michael era, come abbiamo visto, il segno di una rivelazione: essa mostra, rivela al mondo la vera essenza di colui che la indossa (che altro non è che uno specchio nel quale dobbiamo guardarci). Per Zombie, invece, a contare non è tanto la maschera quanto, piuttosto, l’azione di indossarla. In questo modo la sua funzione diventa quella di celare, di nascondere, di negare se stessi agli altri.
L’azione di spostamento dell’asse metaforico della funzione della maschera coinvolge anche la sua stessa forma. Non più bianca, ma sporca e lacera, la maschera di Zombie assume un’identità che non è più la somma di tutte le identità possibili (come il bianco è la somma di tutti i colori dello spettro), ma è, invece, una ed una sola. Ed è anche per questo che il mostro ottiene nella nuova versione (almeno all’inizio del film) anche una cosa che Carpenter gli aveva a bella posta negato: il dono della parola. Michael Myers parla, esprime idee, piange e ride persino. Non più incarnazione di un male assoluto egli diventa incarnazione del male per sé. Un male che ha origini ben chiare. Contro l’astrazione del personaggio carpenteriano, il mostro di Zombie vive in una famiglia distrutta, col padre beone, la madre spogliarellista e la figlia ninfomane. A scuola è vittima degli scherzi dei bulli.
Figli di momenti storici diversi, i due film parlano dei loro rispettivi periodi con parole intinte nel sangue (anche se in Carpenter di sangue non se ne vede mai neanche una goccia). L’orrore stinto dell’America pronta a seguire la bandiera reaganiana per il precursore, l’ansia di un’America post 11 settembre abbattuta e derisa che diventa mostro a sua volta, per il continuatore ed epigono.
Scegliere tra i due è inutile e fuorviante. Ma l’orrore carpenteriano ha una sua sublimità che si è fatta col tempo leggenda. E contro questa l’emulo, per quanto volenteroso e talentuoso (ma anche imperfetto), è destinato a soccombere.


CAST & CREDITS

(Halloween); Regia e sceneggiatura: Rob Zombie; fotografia: Phil Parmet; montaggio: Glenn Garland; musica: Tyler Bates; interpreti: Malcolm McDowell (Dr. Sam Loomis), Tyler Mane (Michael Myers), Daeg Faerch (Michael Myers a dieci anni), Danny Trejo (Ismael Cruz), Brad Dourif (Sheriff Lee Brackett), Sheri Moon Zombie (Deborah Myers), Scout Taylor-Compton (Laurie Strode), William Forsythe (Ronnie White), Clint Howard (Koplenson), Lew Temple (Noel Kluggs), Udo Kier (Morgan Walker); Max Van Ville (Paul), Nick Mennell (Bob Simms), Danielle Harris (Annie Brackett), Adam Weisman (Steven), Dee Wallace (Cynthia Strode); produzione: Dimension Films, Nightfall Productions, Trancas International Films, Spectacle Entertainment Group, The Weinstein Company; distribuzione: Key film; origine: Usa 2007; durata: 109’; webinfo: Sito ufficiale


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