Hannibal Lecter - Le origini del male

Se Freddy Kruger rappresenta, al cinema, il rimosso collettivo della società massificata del nuovo millennio, Hannibal Lecter sembra essere, al di qua di ogni possibile metafisica, lo specchio immanente entro cui la società tutta può vedere riflessa la sua maschera d’orrore.
I film della serie di Nightmare, in questo senso, rappresentano la lenta discesa agli inferi di una realtà sociale assolutamente ipocrita che nasconde i propri delitti dietro una maschera di rispettabilità borghese, dietro le linde facciate di case tipo americane e di scuole dove si studia Shakespeare e ci si prepara ai campionati studenteschi di baseball. Il mostro, in questa realtà, se ne sta nascosto, vive, come un babau, nelle cantine, si annida negli intestizi dei sogni, riaffiora di notte e colpisce nel sonno: è l’inammissibile che torna e galla e si fa carne e sangue. Freddy prende vita nello iato tra come si è e come si appare. Se fuori l’apparenza è quella della buona salute e dei saldi principi che crediamo d’avere e che propugnamo, dentro c’è l’abominio che nottetempo rivendica il suo tributo nell’incubo.
I film della serie di Hannibal viceversa sono la diretta rappresentazione dell’inferno nel quale siamo chiamati a riconoscerci. Hannibal è il come siamo. Il come vogliamo apparire è dato per scontato: sta al di qua del vetro della cella che ci separa nello stesso momento in cui ci fa da specchio. Ci piacerebbe tenerlo chiuso in una prigione di massima sicurezza (e senza neanche la consolazione di una "vista" verso l’esterno, una finestra), ma poi ci avvediamo che è ovunque intorno a noi ed ovunque, terribilmente, anche dentro di noi (ne Il silenzio degli innocenti la testa sotto vetro, dietro un’inconfondibile bandiera americana, stava nel garage a nome di Erest Moidil: anagramma italiano di Il resto di me).
Peter Webber nel lavorare sull’origine del mito, nel raccontare l’infanzia di un mostro che non può avere infanzia, parte proprio da questo principio lapalissiano: Hannibal Lecter, male per antonomasia, è il luogo di incontro di tutti i mali del secolo passato, è il punto nero su cui vanno ad incrostarsi, sino a fondersi, gli orrori della società tutta e di cui egli è diretta, inconfessabile, rappresentazione.
Hannibal Lecter non è il risultato degli orrori di cui la società è stata capace di macchiarsi. Non diventa mostro perché una società mostruosa lo fa tale con i suprusi che gli ha inflitto senza un bieco calcolo. Hannibal non è fatto mostro. Egli si fa mostro, si eleva ad una posizione quasi superomistica nel momento in cui sceglie di portare alle estreme conseguenze, con lucida consapevolezza quella mostruosità che è parte integrante del nostro stesso disegno sociale.
Per questo il punto di partenza dell’orrore sta tutto nell’abominio della seconda guerra mondiale e di quello che è venuto poi. Dietro la maschera orrorifica lecteriana baluginano i fuochi dei forni crematori dei campi di concentramento, l’orrore del cannibalismo così diffuso sul fronte orientale della grande guerra, ci sono i progrom spontanei, i linciaggi che esplodevano di città in città come falene impazzite di violenza immotivata, ci sono le Foibe e il processo di Norimberga, le esecuzioni ai collaborazionisti e gli episodi di giustizia sommaria che tanto comuni erano a pochi anni dalla fine del conflitto.
A fronte di una società dove i criminali del passato nazista prosperano ed occupano ancora le posizioni di potere di una società sedicente nuova, mentre si aprono le porte agli orrori dei regimi dell’America Latina, la posizione di Hannibal Lecter è di incredibile limpidezza. Egli è l’insieme di Hitler e Pinochet, di Tito e di Stalin, di Mengele e di Saddam Hussein. La differenza sta tutta nell’ampiezza del raggio d’azione: poche vittime creano il "caso" del mostro che ci scandalizza e spaventa; tante fanno il numero che ammicca dai giornali, lasciandoci quasi indifferenti.
Hannibal, come il mito non solo cinematografico dei serial killer, è il frutto immediato del nostro secolo scellerato. Un mostro la cui terribilità sta nel fatto che ci è troppo facile riconoscerci in lui. Di qui il suo fascino ambiguo. Perché in fondo Hannibal va avanti dove noi ci fermiamo tutti i giorni. Nelle logiche della convinvenza civile è colui che adotta l’individualismo esasperato non si capisce bene se per scelta o per costrizione.
Peter Webber ricostruisce tutto questo nel suo film (ma tutto questo era già espresso al di là di ogni dubbio già ne Il silenzio degli innocenti) e lo fa impaginando una pellicola di sicuro fascino formale. Con un casting ispiratissimo, sulla base di una fotografia eccezionale, la pellicola rivendica le sue dosi di efferatezza con spavalda sicurezza autoriale. Ma paga il pedaggio ad un meccanismo narrativo più elementare delle ambizioni psicanilitiche che gli stanno alla base. Dietro le sfaccetature della costruzione di un personaggio esemplare e mitologico non è sufficente impostare un meccanismo di caccia all’uomo (agli uomini) di meccanica ripetitività. Il più grande difetto, questo, di un film poco necessario.
[Febbraio 2007]
(Hannibal rising); Regia: Peter Webber; sceneggiatura: Thomas Harris; fotografia: Ben Davis; montaggio: Pietro Scalia, Valerio Bonelli; musica: Shigeru Umebayashi, Ilan Eshkeri; interpreti: Gaspard Ulliel (Hannibal Lecter), Gong Li (Lady Murasaki), Helena Lia Tachovska (Mischa Lecter), Dominic West (Ispettore Popil), Charles Maquignon (Paul il macellaio Momund), Ivan Marevich (Grentz), Denis Menochet (Capo della polizia), Rhys Ifans (Grutas) Kevin McKidd (Kolnas); produzione: Dino de Laurentiis Cinematografica, Zephyr Films, Etic Films, Cathago Films, Ingenious Film Partners LLP; distribuzione: Filmauro; origine: Italia/Francia/Gran Bretagna/Repubblica Ceca, 2006; durata: 120’; webinfo: Sito ufficiale
