Harry Potter e i doni della morte (Parte I)

Grosso modo a metà del romanzo, più precisamente tra il capitolo venti e il ventidue, Harry Potter, e con lui il lettore, viene messo al corrente dell’esistenza dei doni della Morte: una posizione troppo strategicamente calcolata per non destare sospetti.
Strumento di questa presa di consapevolezza è la lettura di una fiaba che, nel libro, viene riproposta nella sua interezza, in splendido corsivo, come avveniva nell’Ottocento incantato dei penny dreadful.
Per J. K. Rowling la metafora è sin troppo scontata: la fiaba non è un racconto d’evasione, come un film hollywoodiano, ma uno strumento conoscitivo. I bambini attraverso la favola si appropriano degli strumenti che li rendono abili ad affrontare le difficoltà del mondo adulto. Essa ha, quindi, un valore salvifico che, nel regno magico, mantiene inalterata una carica di “verità” inimmaginabile per noi babbani. Non è un caso che della fiaba dei tre fratelli tanto Herminone, quanto Harry non sappiano niente. La prima, come mezzosangue, il secondo in quanto cresciuto in una casa ostinatamente babbana, sono troppo a contatto col al di qua della prosa, troppo distanti dal potere affabulatorio della fantasia per averla anche solo setinta nominare.
La scrittrice inglese pone, quindi, nel cuore dell’ultimo capitolo della sua fortunata saga, un segmento squisitamente metareferenziale che ci invita, retrospettivamente, a rileggere il primo capitolo della serie, quello sì una fiaba, sotto una luce nuova. La ghianda si è tramutata in quercia, l’infanzia, se mai c’è stata per davvero, s’è fatta un pallido ricordo che oblivisce come le foto toccate da un soffio gentile di bacchetta.
Nel film la stessa scena, si trova più o meno allo stesso posto. Non del tutto in verità. Il capitolo ventuno (quello in cui si avvera la lettura della fiaba) sta, infatti, un po’ più in là della metà di un romanzo che, con postilla, arriva a trentasette capitoli. In pellicola, invece, la scena è anticipata a poco prima della chiusa. Dettagli che non cambiano la sostanza del discorso visto che il film, in cerca di una cesura forte che lasci appagato un pubblico esigente, anticipa anche il ritrovamento della bacchetta di Sambuco.
Il film capisce al volo il portato metareferenziale della fiaba e lo traduce spontaneamente nel linguaggio che gli è proprio. Se per la pagina scritta, la Rowling abbandona la complessità romanzesca in favore del linguaggio diretto della favola, la stessa cosa fa Yates che lascia la limpidezza fotografica del film di formazione per addentrarsi nel territorio dell’animazione alla Lotte Reiniger, ben oltre il cinema e verso gli spettacoli di ombre. Ognuno, insomma, si rivolge all’infanzia del proprio medium, ma non per spirito d’evasione.
Il passaggio è, però, nel film, solo parziale. Se la voce di Hermione, nel libro, evoca le parole della fiaba ad uso del lettore, nel film “costringe” le immagini al ritmo di una lettura perfidamente immutabile seppur schiavo delle esigenze di un film che deve arrivare alla sua conclusione. L’immagine è, quindi suddita della parola scritta, laddove nel romanzo la parola è, invece, libera schiava del solo gioco della fantasia.
A ben vedere la scena della lettura de I tre fratelli, si presta bene ad essere metafora di tutta l’operazione “Potter al cinema”. Un’operazione appesantita sempre dal bisogno di fedeltà al dettato del romanzo. L’adesione fideistica alla pagina scritta, il bisogno di non inventare mai troppo al di là del romanzo (esigenza da cui ci si poteva liberare solo per i dettagli scenografici naturalmente in secondo piano rispetto all’attenzione dello spettatore medio) hanno sempre fatto sì che i film ne uscissero sempre, i qualche misura sminuiti, se non, addirittura, menomati.
Oggi, I doni della morte, con la sua amplificazione a dittico, esaspera questa componente di sudditanza. Il film esce, infatti, in due parti, solo per l’esigenza di non lasciare indietro nessun elemento del romanzo, solo per rispettare fino in fondo la parola scritta, e non per cercare nelle immagini un senso nuovo.
Il film è così, sempre in posizione ancillare nei confronti del romanzo, tant’è che molti elementi importanti della trama risultano incomprensibili (anche se non fondamentali, visto che il ritmo della narrazione trascina tutto a valle come un fiume in piena) a chi non ha letto i corrispettivi romanzi.
In questo modo I Doni della morte ci appare più bello rispetto ai capitoli precedenti non perché più compiuto, ma perché più completo. La sua complessità, i suoi toni, la sua ricchezza, sono sempre precedenti al film e non intrinseci ad esso.
La saga di Harry Potter segna, in questo modo, una sconfitta radicale del cinema rispetto alla pagina scritta, una sconfitta che difficilmente potrà essere contraddetta dalla prossima seconda parte. Una sconfitta resa vieppiù evidente dall’unica scelta consapevolmente cinematografica pretesa dai produttori: la corsa al ribasso nella restituzione della psicologia dei personaggi. Nel romanzo, ad esempio, Harry annaspa nella faticosa deidealizzazione delle figure genitoriali. Per tutta la prima parte del romanzo stenta a credere che i doni di Silente siano indizi utili a trovare gli Horcrux perché comincia a nutrire dubbi sulla stessa integerrimità del defunto preside della scuola. Dubbi che, nel film scompaiono per la sola e non ottima ragione che, gli eroi di celluloide, soprattutto nei film per ragazzi, non possono avere ombre e Silente deve essere buono e saggio tanto quanto Harry deve essere fedele e coerente. Di qui dettagli incongrui ed incomprensibili: la spada Grifondoro, nel libro, va da Ron, mentre nel film, sembra solo tornare ad Harry.
Il vero problema della serie di Harry Potter, quindi, non è semplicemente il fatto che si dimentica di essere cinema, ma, soprattutto, è che si ricorda di esserlo solo nella corsa al deja vu ed alla convenzione di genere. Tutto il lavoro di adattamento sta, quindi, nella sceneggiatura (ottimo il lavoro di Kloves), e la regia demanda ad altri ogni forma di approfondimento. Le assonanze dell’epurazione dei mezzosangue dal mondo magico con la realtà nazista, ad esempio, stanno tutte nella grafica dei volantini che riempiono il dipartimento di Magia e che ricordano la bieca propaganda di Goebbles.
I motivi di bellezza (e ce ne sono nel film) stanno tutti nei momenti secondari, nei punti di passaggio cui la lunghezza spropositata della pellicola, dona respiro. È, ad esempio, ad un passo dal sublime la scena in cui Hermione cancella i ricordi dei suoi genitori. Ma anche qui il calore della fredda scena è dato tutto dall’attrice (Emma Watson è, forse, l’unica ad essere cresciuta come interprete) e dalla musica che l’accompagna (finalmente Nicholas Hooper lascia il posto ad un più ispirato Alexandre Desplat) e non da consapevoli scelte di regia. Viceversa, quando l’azione incalza, i dettagli sfuggono via nella ridda della corsa delle scope e degli inseguimenti mirabolanti. In un film centrato sul tema della fuga non è difetto da poco.
Nell’abbandono di Hogwarts colpisce, comunque, l’uso di un paesaggio mai così non indifferente: una lezione che ci arriva dritta dritta da Il prigioniero di Azkaban unico film della serie che ambì davvero ad essere tale e non mera illustrazione.
Ma si di illustrazione si deve parlare per I doni della morte, sarebbe ingiusto non ammettere, che, in fondo, è illustrazione spesso ispirata.
Leggi QUI la recensione di Close Up al libro HARRY POTTER AL CINEMA
(Harry Potter and the Deathly Hallows - part I); Regia: David Yates; sceneggiatura: Steve Kloves; fotografia: Eduardo Serra, A.S.C., A.F.C.; montaggio: Mark Day; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson, Ralph Fiennes, Helena Bonham Carter, Tom Felton, Julie Walters, Imelda Staunton, Alan Rickman; produzione: David Heyman, David Barron, J.K. Rowling per Heyday Films; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Regno Unito, 2010; durata: 143’
