Harry Potter e il prigioniero di Azkaban

Harry Potter e il prigioniero di Azkaban è il primo film della serie a prendere realmente le distanze dal modello letterario per avventurarsi nella dimensione del puro cinema. Una favola da raccontare nottetempo al bambino non ancora cresciuto che è un po’ in tutti noi, ma anche una riflessione sincera, a tratti accorata, sull’ineluttabile passare del tempo, sul lento trascolorare delle stagioni che dal mondo fanciullesco (quello dei primi due episodi) si addensa delle ombre del mondo adulto. Per questo il film, pur seguendo fedelmente le linee di una narrazione automatica e pur adeguandosi alle regole del sequel che riprende con poche variazioni una formula già abbondantemente sperimentata, si fa bello e complesso ad ogni momento che passa, si riempie di simboli e di allusioni che, si ha l’impressione, nel romanzo vivevano solo in potenza. Cuaron lavora di maieutica sulle suggestioni della pagina scritta, trae dalla parola narrativa suggestioni (e non solo fatti), circoscrive il racconto nello spazio di un immenso battito di ciglia che va dalla luce iniziale (quella che Harry si diverte a sprigionare notte tempo, con la sua bacchetta, sotto le coperte, come un bambino con i suoi balocchi) fino al buio finale della notte che supera i limiti dello schermo e va oltre i lidi della bellissima sequenza titoli che, mai come in questo caso, è necessario vedere fino in fondo. La luce dell’infanzia viene così apparentemente contrapposta alle ombre oscure dell’età adulta, alla paura (del crescere, del vivere) all’ansia del divenire che si incarna nella bellissima immagine romanzesca dei dissennatori (una delle invenzioni più notevoli del romanzo, efficacemente restituita sullo schermo) che, altro non sono, che gli specchi oscuri della nostra coscienza, il riflesso delle nostre paure più riposte. E tutta la pellicola è fondata sull’idea del riflesso ambiguo, popolandosi di personaggi che si specchiano in pozze d’acqua oppure sul buio della notte appena trattenuto dal vetro di una finestra quasi a rivelare, nello spazio della rappresentazione, la persistenza di un altro arcano che perennemente convive con noi. Harry Potter e il prigioniero di Azkaban è, quindi, un invito ad entrare nel chiuso della nostra anima utilizzando un filtro, un’invenzione esterna che ci permetta di venire a patti con la nostra ancestrale paura di crescere. Per questo il film, come il libro, vorrebbe porsi nei confronti del proprio fruitore adolescente in una posizione ambigua: raccontare la paura e fornire al tempo stesso gli strumenti per superarla. Un po’ come Lupin fa con la figura geniale del Molliccio: un dissennatore in miniatura che può essere annientato solo con la forza liberatoria della risata. Ma la paura del crescere non si dissipa con un semplice colpo di bacchetta ed anche la luce del Patronum evocato da Potter, per quanto abbastanza potente da fugare la coorte di dissennatori, resta, in fin dei conti, un deus ex machina abbastanza misero, un residuo dell’età bambina che tanto, troppo, somiglia dal punto di vista visivo (nelle comprensibili intenzioni di Cuaron) ai giochi da bambino che avevano aperto la pellicola. Come pure è un residuo della fanciullezza l’invenzione assai cinematografica della piccola ruota del tempo che risolve l’intreccio, ma lascia i personaggi nell’amara consapevolezza che il Tempo non può essere cambiato che esso resta immutabile soggetto a leggi che sfuggono alla loro (e nostra) comprensione, ma soprattutto fisso anche nell’impressione dinamica del suo movimento. Il regista messicano riempie il racconto di queste considerazioni e dà carne, sangue e realismo a personaggi che fino a questo punto il cinema aveva restituito con la bidimensionalià del fumetto. Ma soprattutto trasforma la pellicola in una dolente elegia del tempo che passa componendo un racconto ossessionato dalla figura ritornante del pendolo e da un vero senso del trascorrere del tempo (geniale l’idea di rendere il trascolorare delle stagioni attraverso i rami del platano picchiatore) che si nutre di un segreto senso paesistico. La macchina da presa si muove sinuosamente tra i luoghi riconoscibili di Hogwarts ma, anche attraverso un accorto uso del grandangolo, ne reinventa di fatto le coordinate trasportandoci in un luogo conosciuto che pure appare nuovo (vi si adeguano anche le più polifoniche musiche di John Williams qui in evidente stato di grazia). Davvero ci voleva un regista per rendere palese la poesia della pagina scritta, e a noi non resta che ringraziare il cielo per aver fatto sì che Columbus se ne sia accorto e abbia deciso di passare il timone relegandosi al ruolo di produttore.
(Harry Potter and The Prisoner of Azkaban); regia: Alfonso Cuaron; sceneggiatura: Steve Kloves dal romanzo di J.K. Rowling; fotografia: Michael Seresin; montaggio: Steven Weisberg; musica: John Williams; interpreti: Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson, Robbie Coltrane, Gary Oldman, Julie Christie, Micheal Gambon, David Thewlis; produzione: David Heyman, Chris Columbus, Mark Radcliffe per Heyday Films/1492 Pictures, Warner Bros; distribuzione: Warner Bros. Italia
[giugno 2004]
