Harry Potter e l’Ordine della Fenice

David Yates, che subentra a Mike Newell al timone della fortunata saga di Harry Potter, fa, in fondo, esattamente quello che, secondo noi, bisognava fare per dare una sterzata al senso immaginifico dell’intera operazione: fa piazza pulita dell’immaginario adolescenziale sfoderato dal suo predecessore, archivia e mette tra parentesi l’eleganza del gesto registico sfoderato nell’episodio passato (che, da questo punto di vista, sembra diventare un mero incidente di percorso), e centra la propria pellicola su un immaginario dark, incupito dall’orrore per il crescere e dallo sgomento per la visione delle contraddizioni nelle quali si dibatte il mondo adulto.
Per Yates sembra quasi (e qui sta un merito sicuro) che, da un punto di vista strettamente visuale e poetico, Il calice di fuoco non sia nemmeno esistito. Il suo episodio è, piuttosto, la prosecuzione diretta de Il prigioniero di Azkaban. Con il piccolo gioiello di Cuaron, L’ordine della fenice, infatti, ha non pochi punti in comune. Tanto per cominciare è pressoché identica la vocazione di entrambe le pellicole verso tinte spiccatamente horror, poi è comune un preciso gusto per un macabro rivisto, però, in una chiave ancora fanciullesca ed irridente, e, infine, tutte e due le opere sembrano volersi innervare di quella divertita ironia che, presente nelle pagine scritte, era stata totalmente ignorata da Columbus nei primi due episodi cinematografici della saga.
Il regista inglese, anzi, sembra preoccuparsi di ritrovare alcuni elementi che facevano grande la poesia del terzo episodio. Ecco allora che sulla scena ricompaiono figure ritornanti come il possente pendolo che aveva segnato una delle ossessioni visive, ma anche ritmiche e narrative, del terzo episodio (lo si vede bene a marcare il tempo durante un compito in classe imposto dalla Umbridge) o come l’affollarsi di specchi e di riflessi oscuri (la pubblicizzata scena del bacio di Potter, ma, soprattutto, i momenti in cui si confrontano il maghetto e l’orribile Voldemort che altro non sono, in fondo, che il riflesso speculare l’uno dell’altro). Tutti elementi che recuperano (spesso senza capirne davvero fino in fondo il senso) le ambiguità di quello che resta finora il più compatto capitolo cinematografico della serie nel tentativo di riprodurre sullo schermo una magia che si era avverata, nella saga, una volta sola.
Il problema è che a Yates manca il senso paesistico che, invece, era potente in Cuaron, ma, soprattutto, gli mancano quel senso dello spazio (e del tempo), quella percezione delle contraddizioni del mondo adolescenziale e quel senso di amore e partecipazione nei conforti delle gesta e dei drammi dei suoi eroi che, invece, possedeva in massimo grado il regista messicano.
Per questo Harry Potter e l’Ordine della Fenice è, ad uno sguardo attento, un’opera meno compatta e riuscita de Il prigioniero di Azkaban. Meno compatta perché non ha un vero senso della struttura (che invece era forte in Cuaron) e perché sembra essere un film troppo ossessionato dall’adesione alla pagina scritta da cui trae ispirazione (il lavoro dello sceneggiatore nel condensare ottocento pagine è impressionante in vista del fatto che poco rimane fuori di quanto era stato narrato nel romanzo) diventando, così, più letterario che veramente cinematografico. Alla lunga ci sembra di essere di fronte ad un film dove a contare non è tanto l’ampia campata di una narrazione complessa, quanto la pletora di invenzioni e spunti narrativi che dovrebbero illuminarne il senso e che finiscono, invece, spesso, per avere un proprio senso autonomo del tutto scollegato allo sguardo d’insieme. Nella pellicola di Yates a divertire e commuovere sono, quindi, soprattutto i segmenti secondari i momenti in cui si abbandona il racconto vero e ci si concentra sull’accesorio, sull’effimero, sull’inutile (gli appostamenti di Gazza alla ricerca della Camera delle Necessità, l’affollarsi sulla parete della scuola dei decreti della Umbridge, le lezioni di Difesa dalle arti oscure portate avanti dall’esercito di Silente). Non è un caso che la prima parte sia di gran lunga più riuscita della seconda dove lo sguardo anedottico deve cedere il passo al gesto che tira le fila del racconto e porta a conclusione i fili sparsi dell’intreccio.
In questo modo, però, l’adesione ai dettagli dell’ordito romanzesco, porta al sostanziale tradimento della pagina scritta. Harry Potter e l’Ordine della Fenice, infatti, dimentica per strada proprio il senso ultimo del discorso letterario. Il confronto tra adulti e ragazzi (cifra dolente sulla pagina) è, da questo punto di vista, più detto che realmente “sentito”. E, per questo, anche la scoperta della politica (che sembrava forte nel trailer con la scena dei maghi a bordo di manici di scopa che sorvolavano un Tamigi palesemente contemporaneo) resta, a film visionato nella sua interezza, argomento inerte e privo di vero mordente. Scompare così quel bisogno segreto di “rivoluzione” (sia interiore che esteriore) che si respirava tanto nel romanzo quanto, ancor più, già nelle immagini del terzo episodio. E ai personaggi non resta che avanzare meccanicamente (anche se son cresciuti molto gli attori che li interpretano, Daniel Radccliffe soprattutto) verso un finale già scritto.
Tutti questi difetti sostanziali non ci impediscono, comunque, di rimarcare come questo quinto episodio sia, dopo l’ancora inarrivabile terzo, il più riuscito della serie. Sicuramente quello che, al cinema, incasserà meglio forte della pubblicità trainante del prossimo ed ultimo romanzo della Rowling.
(Harry Potter and The Order of The Phoenix); Regia: David Yates; sceneggiatura: Michael Goldenberg; fotografia: Slavomir Idziak; montaggio: Mark Day; musica: Nicholas Hooper; interpreti: Daniel Radcliffe (Harry Potter), Rupert Grint (Ron Weasley), Emma Watson (Hermione), Helena Bonham Carter (Bellatrix Lestrange), Ralph Fiennes (Lord Voldemort), Robbie Coltrane (Rubeus Hagrid), Michael Gambon (Albus), Imelda Staunton (Dolores Umbridge), Emma Thompson (Sibilla Cooman), Alan Rickman (Severus Piton), Gary Oldman (Sirius Black); produzione: Warner Bros. Pictures, Heyday Films;distribuzione: Warner Bros; origine: Gran Bretagna/USA, 2007; durata: 135’; webinfo: Sito originale
