Harsh Times – I giorni dell’odio

In guerra la violenza del soldato è legalizzata; nel mondo di tutti i giorni, quella dell’everyman diventa deprecabile. Ma cosa può succedere quando un eroe della Guerra del Golfo è costretto a tornare alla ‘normalità’, accompagnato dai suoi demoni più reconditi e dagli incubi più nascosti? Questo è l’imperio americano che si espande da Los Angeles all’Iraq: un viaggio di sola andata, senza ritorno.
Jim Davis (Christian Bale) è un ex membro delle truppe d’assalto che torna a casa, nella desolazione della zona South Central di Los Angeles: mentre si perde nella sua vita di strada precedente alla guerra, tra droga, alcool e crimine, si mette in cerca di un lavoro presso la polizia. Per trovare una stabilità emotiva, vorrebbe sposare e portare negli Stati Uniti la sua ragazza, la messicana Marta. Intanto divide le giornate con l’amico fraterno Mike (Freddy Rodriguez), anche lui disoccupato, ma con, almeno, l’intraprendente Sylvia (Eva Longoria) vicino a sé.
Harsh Times – I giorni dell’odio è un film di David Ayer, molto attivo negli ultimi anni come sceneggiatore (Training Day, Indagini sporche, Fast and Furios e S.W.A.T.) e qui al suo esordio nelle vesti di regista. Con questa pellicola ha voluto mettere in atto un progetto che portava con sé da molto tempo, una storia che considera assai personale, e poco vicina agli standard di Hollywood: la ricerca di un realismo sporco (girato in Super 16mm) e la possibilità di ingenerare, nel grande pubblico, una certa sgradevolezza; una serie di vicende sempre uguali a se stesse, fino al deflagrante finale altresì emozionante e non troppo scontato. Come nei precedenti film cui ha collaborato, Ayer predilige mostrare la wild side dell’America: ossia quella degli uomini comuni. Ma, stavolta, è presente una certa malinconia sulla fallibilità di chi è prigioniero del proprio vissuto e delle istituzioni che dovrebbero proteggere. Da qui discende un senso di perenne claustrofobia, ben rappresentato da persone che girovagano per la metropoli, sempre chiuse in macchine strette come sarcofaghi.
Il fisico statuario, lo sguardo gelido e quasi perso nel vuoto, il volto roccioso di Christian Bale donano al suo personaggio fattezze tali che non possono ingenerare nello spettatore l’empatia che ci si sarebbe potuto attendere, perché il tutto concorre a metterlo in scena alimentando una certa distanza. È una miccia sempre pronta a prendere fuoco, un pericolo costante per sé e gli altri, un relitto alla deriva, una vittima sacrificale destinata ad inabissarsi. Ma è anche un carnefice: e i suoi scoppi d’ira, proprio grazie al suo evidente stato di alienazione, giungono a noi ancora più inaspettati.
Ma Harsh Times non riesce a convincere completamente, in particolare per colpa di certe discutibili scelte di regia, tutte assimilabili a una generale rozzezza di stile, solo in parte giustificabile attraverso la ricerca del sempre troppo decantato realismo. È addirittura fastidioso il ralenti nella scena finale, perché è la scelta più scontata - da libercolo di regia - che non fa altro che distruggere il pathos del sacrificio, piuttosto che accentuarlo. Mentre in certi casi, la materia narrata dovrebbe essere raggelata, in modo da colpire più ferocemente, e più a lungo, il proprio pubblico.
(Harsh Times) Regia, soggetto e sceneggiatura: David Ayer; fotografia: Steve Mason; montaggio: Conrad Buff IV; musica: Graeme Revell e brani di repertorio; interpreti: Christian Bale (Jim Luther Davis), Freddy Rodríguez (Mike Alonzo), Eva Longoria (Sylvia), Chaka Forman (Toussant), Tammy Trull (Marta); produzione: Crave Films, Harsh Times LLC; distribuzione: Mikado; origine: U.S.A. 2005; durata: 120’.
