Heimat ist ein Raum aus Zeit
Ci sono dei film che andrebbero mostrati a più persone possibili sia perché rappresentano qualcosa di mai visto e di inaudito, sia perché hanno la capacità di veicolare, senza essere didascalici e all’interno di uno spazio temporale tutto sommato limitato, una quantità impressionante di dati e fatti. Dati e fatti che credevamo di conoscere già, ma che invece vengono ad essere ripresentati come se fosse la prima volta, vivificati grazie all’autenticità. A questo genere di film appartiene quello che forse è il film più importante di questa edizione della Berlinale, ovvero Heimat ist ein Raum aus Zeit (La patria è uno spazio fatto di tempo) di Thomas Heise, il terzo film più lungo fra i circa 400 presentati a Berlino nell’edizione del 2019 (dopo la riproposizione di Satantango di Bela Tarr, 450 minuti, e dopo il documentario su Watergate di Charles Ferguson, 262 minuti). Il film di Heise di minuti ne dura 218. Nessuno, temo, conosce Heise in Italia; a dire il vero, una decina di anni fa a Firenze, nel quadro del Festival dei Popoli, gli venne dedicata una retrospettiva, ma la cosa non ha certo contribuito a renderlo celebre. Heise è nato nel 1955 nel paese che allora si chiamava DDR, figlio di Wolfgang Heise, un celebre professore universitario berlinese che Heiner Müller (su cui, verso la fine, torneremo) ebbe a definire l’unico vero “filosofo” della DDR. In Germania, invece, Heise è molto celebre, essendo uno dei documentaristi più importanti di quel paese. Il suo documentario più famoso, addirittura più lungo di questo (316 minuti), s’intitola Material ed è reperibile nelle edizioni del Filmmuseum di Vienna. Non stiamo esagerando: all’interno del cinema documentario di impostazione storica siamo nelle vicinanze, come importanza, di Claude Lanzmann o, per altri aspetti, di Sergei Loznitsa.
In che cosa consistono i 218 minuti di Heimat ist ein Raum aus Zeit (la trasformazione del concetto spaziale di “Heimat” in concetto eminentemente temporale risale a Ernst Bloch e alle ultime righe del Principio Speranza) presentato a Berlino, nella sezione Forum? Si tratta né più né meno del racconto del ventesimo secolo ricostruito attraverso l’apertura dell’archivio familiare, con inquadrature autentificanti di una serie di documenti che vanno, classicamente, dalle fotografie, e passano attraverso lettere private, lettere a istituzioni, cartoline, arrivando persino ai temi scolastici. Il processo di autentificazione passa altresì attraverso il fatto che è Heise stesso per tutto il film, con la sua voce, a dare lettura di questi documenti. L’ambizione, la sfida o se vogliamo la hybris di Heise è che questi documenti siano sì capaci di raccontare la storia della sua famiglia ma al contempo risultino esemplari delle tragedie e dei drammi della Storia non solo tedesca, ma più in generale europea. Un’ambizione giustificata e una sfida vinta, perché il materiale su cui lavora Heise è di straordinaria bellezza e importanza e riveste un altissimo significato politico, culturale ed emotivo. Il film è diviso in cinque parti e copre un secolo esatto: il primo documento risale al 1912, un tema scolastico antibellicista del nonno Wilhelm, l’ultimo è del 2012, una “confessione” autobiografica del regista in occasione della morte della madre Rosemarie e dello sgombero della casa da lei abitata. Nel mezzo c’è tutto: la prima guerra mondiale, il periodo dell’inflazione in cui il nonno conosce quella che diventerà sua moglie, l’ebrea viennese Edith Hirschhorn che si trasferirà a Berlino, la nascita dei due figli Hans e Wolfgang, le persecuzioni razziali, la seconda guerra mondiale, la prigionia dei due fratelli, la tortuosa conoscenza di Wolfgang con Rosemarie, i genitori del regista, la nascita di Thomas e del fratello Andreas, la divisione delle Germanie, il rapporto conflittuale ma fondamentalmente leale dell’élite intellettuale tedesco-orientale con il regime, la caduta del Muro, la devastazione politico-antropologica prodotta dalla riunificazione. Sono soprattutto tre le fasi di questo film che paiono semplicemente memorabili. La prima è la fase delle persecuzioni razziali: fra il 1939 e il 1941 i parenti viennesi scrivono a Berlino a Edith, che cosa sta succedendo nell’ex capitale austriaca in seguito all’annessione hitleriana, soprattutto le sempre più frequente deportazioni verso Oriente, la progressiva riduzione degli spazi abitativi assegnati, l’attesa rassegnata e ineluttabile del giorno in cui toccherà anche a loro. Mentre Heise legge i brani di queste lettere, in parallelo, anzi all’inizio sfalsati di qualche mese dal punto di vista cronologico, scorrono i documenti ufficiali con lista dei cittadini viennesi di origine ebraica deportati, i loro indirizzi e le loro date di nascita. Lentamente e inesorabilmente le date delle lettere e le date di questi documenti ufficiali arrivano ad avvicinarsi, fin quando vediamo, uno dopo l’altro, presenti nella lista i quattro parenti di Edith, il padre, lo zio, la zia, il fratello, che, uno dopo l’altro, verranno invitati a presentarsi alla “Sammelstelle”, al punto di raccolta da dove poi partiranno verso est per non tornare mai più e per non dare più segni di vita a chi (ancora) è rimasto a Vienna. Questa sequenza, con la lista infinita dei deportati, e i lamenti accorati e rassegnati dei parenti viennesi, dura venticinque minuti ed è di una inesorabile e straziante bellezza. La seconda sequenza è forse la più originale di tutte: a un certo punto, fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 Heise comincia a dare lettura del diario di Rosemarie, colei che successivamente sarebbe diventata sua madre, che viveva a Lipsia nella Germania Democratica, e delle lettere da lei ricevute da parte di un certo Udo che invece viveva a Magonza, in Germania Federale. I due, almeno fino a un certo punto, sembra che si siano amati, Udo fa di tutto per sposarla e per farla venire a Ovest. Ma lei non viene e lui non ha nessuna intenzione di trasferirsi in DDR per ragioni d’amore. E così il rapporto finirà. L’amore e la guerra fredda, Cold War. La terza e ultima sequenza di particolare spessore è quella finale, incentrata sulla devastazione prodotta dalla riunificazione tedesca e con la fine del cosiddetto socialismo reale, con l’obliterazione di tutto il patrimonio culturale della DDR, l’amarezza per la costituzione del nuovo ordine mondiale, nel quale in capitalismo selvaggio dilaga e nessun’altra alternativa si affaccia all’orizzonte. Qui, oltre a dar voce a Christa Wolf con cui la famiglia Heise, almeno dagli anni’60 ebbe un rapporto stretto, Heise cita ampi stralci di un testo che leggemmo a suo tempo e che a rileggerlo oggi fa, se possibile ancor di più, semplicemente rabbrividire, s’intitola Die Küste der Barbaren. Glossen zum deutschen Augenblick (La costa dei barbari. Glosse sul momento storico tedesco), lo scrisse Heiner Müller, pubblicandolo sulla “Frankfurter Rundschau” nel 1992, una lucida visione apocalittica di cosa sarebbe successo in seguito alla definitiva vittoria del sistema capitalista.
Sul piano visivo – il film è girato in uno spietato bianco e nero - quando non inquadra i documenti e le fotografie, Heise inquadra paesaggi per lo più autunnali e invernali, una natura spoglia e inospite che dice tutta la pesantezza dell’esser tedesco, oppure non luoghi che raffigurano la distruzione, cave, macerie, blocchi di pietra, fabbriche dismesse, treni e sempre treni, stazioni, simbolo del movimento, dell’impermanenza e della non appartenenza, con un rigore e un’ossessività che ricorda W.G. Sebald.
(Heimat ist ein Raum aus Zeit); Regia: Thomas Heise; sceneggiatura: Thomas Heise fotografia: Stefan Neuberger; montaggio: Chris Wright; produzione: Ma.ja.de Filmproduktion, Navigator Film, Vienna 2019; origine: Germania, Austria durata: 218’.