X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Hellboy

Pubblicato il 17 ottobre 2004 da Alessandro Izzi


Hellboy

Hellboy poteva davvero essere un film memorabile e necessario. Aveva, ci pare, tutte le carte in regola per ridisegnare fattivamente le coordinate sulle quali si attua il difficile passaggio dalla carta stampata del fumetto alla pellicola cinematografica in un auspicabile superamento della linea Marvel che sembra essere l’unica possibile per il cinema americano di oggi (anche laddove produce sonori scivoloni come nel caso di The Punisher). Eppure nel percorso problematico che va dalle strisce del fumetto originale ormai cult di Mignola al film, qualcosa si perde irrimediabilmente lasciando lo spettatore con la strana impressione di trovarsi di fronte ad una di quelle classiche opere monche piene di buone intenzioni, ma di scarsi risultati. Strano, perché la figura del protagonista, un mostruoso diavolo richiamato dall’Inferno in una delle fasi più delicate della Seconda guerra mondiale per aiutare i nazisti e, poi, “adottato” dai buoni di turno per sconfiggere quello stesso male dal quale proviene e verso cui pure deve sentire una qualche forma di attrazione, sembrava contenere echi non certo estranei alle corde di un regista che ha sempre posto al centro della sua indagine l’ambigua linea che separa il “Bene” dal “Male” (si pensi al notevole e hitchcockiano El espinazo del diablo) e che nei fumetti, appunto, si fa tanto più problematica quanto più sembra aspirare alla nettezza acritica della contrapposizione di bianchi e di neri. Da questo punto di vista ci pare di poter affermare senza tema di smentite che Hellboy, proprio in virtù di misteriose confluenze stilistiche e tematiche implicite nella materia trattata, può, a buon diritto, essere considerato come il film decisamente più personale di Del Toro: l’opera d’approdo di una vita come era stato, a suo tempo Hook per Spielberg o Pinocchio per Benigni. Come i due film appena citati anche Hellboy, comunque, soffre della mancanza di una vera distanza poetica tra l’autore e l’opera; manca, insomma, quel franco spazio di meditazione critica, quel cantuccio (per usare, in maniera un po’ impropria, un’espressione manzoniana) da cui l’autore può guardare la sua opera con quel filo di scetticismo necessario a creare la sottile ambiguità che fa grande l’arte. Contrariamente alla logica imposta dal genere del comic-movie, che cerca l’esasperazione per superare i limiti del realismo implicito nella logica fenomenologica delle riprese dal vivo (anche se conflate con un’enorme quantità di effetti digitali), il regista non indulge mai troppo nello spazio francamente orrorifico del racconto, ma allo stesso modo rifiuta anche di spingere troppo sul pedale dell’ironia. Tenendosi radicatamente al di fuori di questi due estremi, Del Toro sembra più che altro desideroso di raggiungere al più presto un tono realistico/psicologico che, a pensarci bene, è decisamente originale. Ma, proprio per questo, Hellboy è anche il film che più deluderà gli esegeti di un regista che si era affacciato sulla scena con esordi orrorifici di tutto rispetto (l’ottimo Cronos) e che si era vista cucita addosso da adoranti fans l’etichetta di salvatore dello slasher. Insomma Hellboy è un film che resta a cavallo tra tanti possibili estremi quasi fosse indeciso sulla direzione da prendere. Eppure, proprio questa sua apparente “incertezza” assolutamente contraddittoria tra il modello del blockbuster statunitense e il desiderio di una riflessione quasi underground, proprio per il suo essere esponente di una cultura di massa (Del Toro sembra essere sempre alla ricerca del “suo” grande pubblico), che si sublima nella logica di aspirazioni anche letterarie di alt(r)a natura (i costanti riferimenti al ciclo lovecraftiano) rivela, alla fine, una sua matrice assolutamente e pervicacemente messicana. Forse per questo, proprio in virtù dei suoi molteplici difetti che restano comunque il segno di una ricerca (che sia un binario morto o l’inizio di qualcosa solo il tempo potrà dirlo), ci viene spontaneo difendere un’opera da troppi considerata indifendibile per non destare almeno l’ombra di un sospetto.

(Hellboy); regia: Guillermo Del Toro; sceneggiatura: Guillermo Del Toro; fotografia: Guillermo Navarro; montaggio: Peter Amundson; musica: Marco Beltrami; interpreti: Ron Perlman, John Hurt, Selma Blair, Rupert Evans, Karel Roden; produzione: Lawrence Gordon, Lloyd Levin, Mike Richardson; distribuzione: Columbia Tristar

[ottobre 2004]

Enregistrer au format PDF