HERBIE IL SUPER MAGGIOLINO

Herbie, il maggiolino con un’identità che ha colorato l’infanzia di milioni di persone sparse per il globo, è sempre stato, non solo nelle intenzioni dei suoi autori, una precisa materializzazione del prototipo dell’american dream. L’idea stessa di un vero e proprio supereroe mascherato dietro le sembianze di un veicolo utilitario, ideato appositamente per le famiglie e per i piccoli percorsi, ben si adattava a racconti di catarsi positiva in cui i ragazzi potevano identificarsi nel modello di una realtà media sempre vincente. Quale bambino non ha mai sognato che la propria bicicletta possa essere in grado di librarsi in volo sugli ordinati quartieri suburbani nei quali, con molta fatica, si sta crescendo? Chi non ha mai sperato, almeno una volta nella vita, che dietro la banalità quotidiana di un automobile o di un qualsiasi altro oggetto d’uso comune possa annidarsi il mistero di un’avventura senza fine? I racconti della serie di Herbie sono, dunque, precise incarnazioni di un desiderio infantile, al più adolescenziale. Racconti di riscatto e di rivalsa, momenti magici in cui la normalità della vita borghese subisce per un attimo lo strattone della fantasia, si inerpica sulla vertigine di un’avventura possibile e ripiomba, infine, nella normalità del quotidiano rivissuta, però nella consapevolezza nuova che è il normale ad essere, alla fine, davvero meraviglioso. Basta solo saper guardare le cose dal giusto punto di vista. Un’elegia medio borghese, quindi, al fondo anche abbastanza mostruosa nel suo nutrirsi malsano di buoni sentimenti e nel suo sostanziarsi di una filosofia formato cioccolatino che deve portarci, alla fine, nel godere, immedesimati, del trionfo di cartapesta dei protagonisti del racconto, ad accontentarci di quello che siamo e di quello che abbiamo. Il nuovo film della serie, non si discosta di molto da questa strategia preconfezionata sotto il logo Disney né da un punto di vista sociologico (quasi a voler negare al mondo che, in trenta anni, ne è passata di acqua sotto i ponti), né da un punto di vista strettamente narrativo, né, incredibile a dirsi, da quello della pura e semplice estetica. Su quest’ultimo fronte, anzi, si consuma il vero e proprio paradosso dell’operazione messa in campo perché appare decisamente bizzarro (ma al fondo comprensibile se si pensa alla crisi di identità che attanaglia la moderna industria cinematografica americana) ritentare, oggi, la strada di un film per famiglie così spiccatamente old fashion. Dal punto di vista della messa in immagine, infatti, Herbie il super maggiolino brilla per la sua pertinace adesione ad una linea di netta controtendenza rispetto ai modelli di block-buster fin qui trionfanti al botteghino. Stupisce, quindi, la ricerca portata avanti nella pellicola di una fotografia marcatamente anni ’70, oppure il rifiuto quasi totale per le lusinghe (e le scorciatoie) offerte dalle immagini generate al computer in favore di un gioco di effetti speciali artigianali che hanno tanto un sapore nostalgia che certo risulterà gradito agli estimatori della vecchia serie (ormai padri e madri di famiglia). Mentre stupisce meno, perché legato ad una precisa strategia commerciale, il ritorno ad un racconto stereotipato, volutamente legato ad un modello attanziale elementare di eroi ed oppositori riuniti in uno scontro manicheo con tanto di punto di morte rituale esemplificato nella scena dell’arena di demolizione nella quale il maggiolino sta per soccombere. L’idea, insomma, è quella di un racconto educato ed ammiccante, naif e piacione che ricalca scientemente i passi di una vecchia ricetta campagnola alla ricerca di un vecchio sapore sempre buono pur nella sua palese inattualità. Una storia fantastica che alla fine è il remake costante della solita storia/mito americana (pochi commentatori hanno fin qui rimarcato i motivi di continuità tra la serie di Herbie e la storia vera di Seabiscuit che quest’anno ha ispirato alla lontana anche un’altra pellicola per famiglia: Zebra, una striscia alla riscossa). Cosa salvare, allora, di questo ennesimo frutto di un’industria malata? Forse qualche attore di contorno perfettamente calato nella sua funzione di meccanismo narrativo come Justin Long o Breckin Mayer (ma fa tristezza vedere Michael Keaton nei panni di un posato genitore di famiglia). Forse qualche scena di corsa. Ma alla lunga lo spettacolo non può non rivelarsi per quello che è: una pratica garbatamente inutile.
(Herbie fully loaded); Regia: Angela Robinson; sceneggiatura: Ben Garant, Thomas Lennon, Alfred Gough, Miles Millar; fotografia: Greg Gardiner; montaggio: Wendy Green Bricmont; musica: Mark Mothersbaugh; interpreti: Lindsay Lohan, Michael Keaton, Matt Dillon, Breckin Meyer, Justin Long, Cheryl Hines, Jimmi Simpson; produzione: Robert Simonds; distribuzione: Buena Vista
[Agosto 2005]
