Hunger games

Alla fine del primo romanzo della trilogia, Suzanne Collins svela un ennesimo segreto di Pulcinella.
Siccome tra i lettori di Internet capita spesso che ci siano curiosi che non vogliono trovarsi di fronte a spoiler o ad anticipazioni troppo sostanziose della trama, sconsigliamo subito la lettura di quanto segue a chi non ha visto il film o non ha letto il romanzo, limitandoci a consigliare la visione in sala prima di tornare su queste pagine. Un consiglio, questo che suona strano visto che, come accennavamo, il segreto è, appunto, di Pulcinella e ci era stato telefonato sin dall’incipit della fosca vicenda con tanto di chiamata a carico del destinatario. Ma tant’è!
Il segreto è che Peeta è davvero innamorato di Katniss e che una storia d’amore, magari non proprio del tutto corrisposta, c’è stata veramente nel gorgo delle finzioni televisive che si sono succedute con buona pace del nostro stomaco costretto a dieta di reality show per oltre trecento pagine. Insomma: in un mondo dove tutti fingono, dove ognuno è costretto a costruirsi una propria verità televisiva per letteralmente sopravvivere (ricordiamo che il film racconta di ventiquattro ragazzi costretti ad uccidersi l’un l’altro sotto l’occhio delle telecamere finché non ne rimane uno solo) c’è stato almeno uno che è stato capace di rimanere se stesso, di non cedere alle lusinghe dello spettacolo a costo della vita e di mantenere intatto il proprio amore come un fiore sulla fossa. La più grande rivoluzione è tutta qua. Quella di dopo, quella politica, quella che dovrebbe portare a ribellarsi alle regole di un mondo che fa uccidere per svago e per il mantenimento di uno status quo, può arrivare dopo. Prima c’è la ribellione individuale, la dimostrazione (a se stessi, soprattutto) che si può anche non diventare come lo sponsor ci vuole e come l’audience ci pretende.
Il lato tragico e grottesco è che quell’amore che, puro, muove tutto il personaggio ad ogni azione, piace tanto anche al pubblico. Vuole sfuggire alle regole dell’audience, ma quando è sotto lo sguardo della telecamera si fa, malgrado le sue stesse premesse, spettacolo di prima serata e se va avanti, se sopravvive all’orrore di ragazzi calati in un girone d’inferno, lo fa solo perché la sua continua esibizione potrebbe essere l’unico modo per tenere in vita, di rimando, l’oggetto amato. L’incerto del mestiere (e Peeta lo sa bene) è, semmai, che l’amata possa non ricambiare per davvero, ma solo fingere anche lei ad uso degli sponsor.
Katniss capisce poco ed in ritardo le possibilità che le derivano, presso il pubblico, dell’essere un oggetto desiderato e, quindi desiderabile. Il fatto di essere amata le torna dapprima utile per affrontare l’arena e poi, in seconda istanza, solletica qualche corda della sua vanità di donna. Ma è il pizzicato musicale di un personaggio che il sentimento non è che proprio ce l’abbia sulla punta delle dita o sulle corde dell’arpa. Troppo pragmatica, Katniss (nel film una superba Jennifer Lawrence) sa bene che certe domande è meglio non porsele se si vuole uscire vivi e così asseconda la finzione e, per un bel po’, si vende come amante.
La grande colpa di Peeta, in fondo, è proprio questa: in un mondo di lusinghe, dove ognuno finge pur di salvarsi la pelle, lui sente profferte d’amore dalla donna che ama e ci crede. Non perché sia stupido, ma perché è di quelle persone che preferiscono credere a ciò che desiderano piuttosto che perdersi nel labirinto delle supposizioni.
Il film azzecca un primo colpo nel dare a Peeta il corpo e le movenze di Josh Hutcherson che ha lo sguardo fresco di un atleta d’altri tempi. Un vicino di casa, in fondo, di quelli con cui si scambiano due tiri al canestro il pomeriggio e che s’accontentano di poco. Di rimanere se stessi appunto. E il fatto che l’attore rimarchi ad ogni intervista come questo sia, tra tutti i ruoli interpretati, quello a lui più vicino ti fa pensare che, in quel gorgo di apparenze attraversato a sprazzi da barlumi di coscienza che è Hollywood, lui sia una persona che potrebbe valer la pena di conoscere. Ed è così che l’ambiguità del racconto si travasa anche nella vita vera perché non sai mai se quanto raccontato dal figlio del fornaio non sia farina del sacco dell’ufficio stampa.
L’ambiguità è proprio il cuore pulsante di Hunger games. Si travasa in ogni pagina, sospira diafana in ogni inquadratura e sporca tutto, non lascia libero neanche un barlume di idea. Quando il romanzo scopre le carte di Peeta precipita il narrato verso un punto di non ritorno. Al povero vincitore degli Hunger games corrisponde, infatti, fatalmente, una Katniss indecisa tra il suo amore e i non nominati sentimenti che prova per il terzo incomodo Gale. E un po’ dispiace, nel lettore, che a tanto ardire narrativo, a tanta critica culturale, segua l’ennesimo racconto di una bella divisa tra le tentazioni del biondo e quelle del moro, tra licantropi e vampiri. È come la concessione ai gusti del pubblico adolescenziale che di queste storie di amori confusi ne beve in lattina, tutti i giorni. Ma è lo stesso pubblico che si beve anche i reality e così non sai più se la scrittrice usi il linguaggio dei ragazzi per smascherare una finzione o ne sia succube, sul finir di volume, per garantirsi acquirenti al secondo episodio. Il fatto che a tanto inferno segua la solita storia di cotte adolescenziali, però, per i personaggi non è tanto una caduta di tono quanto un salto senza paracadute dalle remote vette dell’Everest.
Gary Ross lo sa e il suo Hunger games lo cala nell’ambiguo senza risolverlo troppo. Così Peeta resta al limitar di Dite del suo amore. Lo vedi sorridere al pubblico in finale, ma ancora te lo ricordi quando lo faceva all’inizio, arrivando in capitale, sul treno dei tributi. La dichiarazione manca, ma i due sedicenti amanti si prendono per mano ad ogni telecamera che passa. La stessa Katniss che nel romanzo è ben più volitiva qui non si capisce bene da che parte stia. Segue un percorso di coscienza anche politica, ma alla fine è radiosa come sposa pronta a confessare amore nelle dirette di prima serata.
Il regista stacca, è giocoforza, la sua narrazione dall’io narrante delle pagine romanzesche e questo gli permette incursioni in aree che la pagina scritta non conosce. Entra nella cabina di regia del programma televisiva e ne svela gli autori, segue le lezioni di Real politique della classe dirigente che usa la finzione per anestetizzare le masse e che dia al popolo speranza, ma, per carità, la giusta dose perché troppa porterebbe desiderio di rivoluzione e troppo poca non servirebbe a niente. Come a dire, qui in Italia, che tanto male non ce la passiamo visto che in Grecia si suicidano di più.
L’apparato televisivo è un aiuto, per il regista, buono a spiegare tante cose. Così possiamo capire meglio cosa sono gli aghi inseguitori perché che te lo dica il presentatore televisivo non suona pleonastico in reality dove tutto viene detto da De Filippi imploranti lezioni di grammatica.
Quel che Ross azzecca meglio, comunque, è nel dettaglio piccolo (oltre che negli ottimi attori di primo piano), nella visione della Grande depressione che mima un periodo di crisi in cui non possono non crescere organismi totalitari che parlando prima di tutta la lingua delle grandi architetture (qui tutte di stampo nazista). Il discorso politico sta spesso più nell’accenno che nel proclama, nella dimensione visiva e non nelle parole. Ma non sfugga allo spettatore che la macchina a mano la si usa più nella ricostruzione del distretto povero che non nella concitazione degli Hunger games. Quasi a dire che se proprio tutto è immagine, anche quella manierista dell’America del ’29 (e il millenovecento o il duemilacinquecento in fondo sono uguali) ce ne deve pur essere una un pochettino più pronta ad aprirsi come sipario su qualcosa di vero.
Hunger games non è un capolavoro, intendiamoci. Ma dice qualcosa di più grosso di quel che traspare dalle immagini. Anche nelle concessioni al pubblico adolescenziale che certo apprezzerà, ma che sentirà il film come qualcosa di più scivoloso del solito Twilight.
(The Hunger Games); Regia: Gary Ross; sceneggiatura: Gary Ross, Suzanne Collins, Billy Ray; fotografia: Tom Stern; montaggio: Christopher S. Capo, Stephen Mirrione, Juliette Welfing; musica: James Newton Howard; interpreti: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Woody Harrelson, Stanley Tucci, Lenny Kravitz, Elizabeth Banks; produzione: Color Force, Larger Than Life Productions, Lionsgate, Ludas Productions; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, 2012; durata: 142’; webinfo: Sito Ufficiale
