I bambini di Cold Rock

Pascal Laugier torna sul grande schermo con un nuovo film davvero ben confezionato: la fotografia, che cambia spesso tonalità dando alla pellicola il giusto aspetto minaccioso e livido, è di Kamal Derkaoui, le scenografie sono realizzate dal francese Jean Carriere, lo stesso che si occupò di Martyrs (film con il quale il regista si era affacciato sul panorama horror internazionale portando una ventata di freschezza al genere horror europeo).
Il film scritto dallo stesso Laugier, è stato realizzato oltre oceano con soldi americani, ma tecnicamente è una coproduzione Canada – Francia. Il rischio che si può correre in casi come questo, in cui un talento europeo viene ingaggiato a suon di dollari, è quello di uno spegnimento dello stesso a causa di doveri dettati dalla produzione, ma il regista non si è snaturato o adeguato. E’ stato abile ad individuare uno spicchio sperduto tra le Montagne Rocciose, lontano dal caos hollywoodiano, che gli ha permesso di dirigere il film con un budget di 18 milioni di dollari (dunque inferiore agli standard americani) mantenendo però le caratteristiche della sua poetica, con un risultato di tutto rispetto.
Julia Denning, interpretata da una brava Jennifer Biel (anche produttrice esecutiva del film) è un’infermiera e lavora nell’ambulatorio, diretto dal marito fin quando era in vita, offrendo assistenza agli abitanti di Cold Rock. La cittadina è caratterizzata dai tipici problemi delle periferie dimenticate dallo Stato e soprattutto è angosciata dalla ciclica scomparsa dei bambini, attribuita ad una vecchia leggenda “The Tall Man”, ma in realtà nulla è come sembra.
I bambini di Cold Rock (al solito terrificante la scelta italiana del titolo, in originale è appunto The Tall Man) non è un horror. E’ un film che si trasforma continuamente passando dal mistery, al thriller, al dramma familiare, in un mix ben amalgamato. Gli ambienti sono utilizzati al meglio per incutere paura, senza la necessità di ricorrere a stupidi trucchetti per far saltare sulla poltrona, si salta lo stesso grazie ai colpi di scena efficaci, ad una buona e sana suspence. La prospettiva è continuamente capovolta mostrando personaggi che in una sequenza diventano mostri e in quella successiva si trasformano in martiri, perché nulla e nessuno sono ciò che sembrano. La storia dei bambini che scompaiono è quasi uno spunto per allargare la visione al declino della famiglia come istituzione e terreno stabile, sull’inadeguatezza al ruolo di genitori se le condizioni ambientali e sociali non lo permettono, allargando il discorso alla burocrazia che impedisce all’individuo di agire per migliorare una situazione. Siamo tutti collegati come fossimo anelli di una grande collana, se si mettesse in movimento un meccanismo che davvero apre le porte ad un miglioramento, il motore ormai arruginito comincerebbe a ricaricarsi, mentre al momento non fa altro che paralizzarsi sempre più.
Il meccanismo dello scioglimento dell’intrigo poco alla volta fa sì che lo spettatore non distolga mai l’attenzione. Laugier ha occhio, stile e ritmo, non un fotogramma fuori posto, non un dialogo superfluo. La sceneggiatura è solida e accattivante, non ci sono complicazioni inutili o ellissi che possano lasciare spazio a ipotesi da parte dello spettatore, ma purtroppo il pericolo arriva nel finale (snodo sempre difficile soprattutto per film di questo genere) che appare un po’ debole, non allo stesso livello di intensità espressiva di ciò che si è visto fino a quel punto.
Più di 30 location differenti sono state utilizzate, regista e scenografo hanno studiato nel minimo dettaglio ogni colore e ripresa, verdi e blu desaturati per sottolineare il paesaggio caratterizzato da foreste di pini che recintano la città, con conseguente sensazione claustrofobica. Diversi i mezzi di ripresa utilizzati, in alcune scene vediamo un uso contemporaneo di steadycam, dolly, gru e camera a spalla per un risultato di effetti molto lontani tra loro, ma è proprio questa tecnica che contribuisce ai continui cambi di prospettiva che spiazzano lo spettatore e lo costringono a guardare gli eventi da un’altra angolatura.
Film dopo film emerge sempre più ciò che ormai sembra essere un elemento costante e importante per il regista. La parabola di vittime che arrivano a uno stadio di rinascita e salvezza tramite un’altra forma di morte, senza sfuggire al conseguente e inevitabile dolore e carico. Si riflette sulle singole parole dei protagonisti per cercare di coglierne il significato volutamente ambiguo e dopo la visione rimane addosso una sensazione di malessere…costruttivo.
(The Tall man) Regia: Pascal Laugier; sceneggiatura: Pascal Laugier; fotografia: Kamal Derkaoui, CSC; montaggio: Sebastien Prangere; musica: Todd Bryanton; interpreti: Jessica Biel, Stephen Mchattie, William B. Davis, Jodelle Ferland; produzione: Cold Rock Productions BC, Forecast Pictures, Iron Ocean Films; distribuzione: Moviemax; origine: Canada/Francia, 2012; durata: 100’
