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I fantastici 4 e Silver Surfer

Pubblicato il 19 giugno 2007 da Alessandro Izzi


I fantastici 4 e Silver Surfer

La serie dei Fantastici 4, giunta con questa pellicola al suo secondo e non certo ultimo appuntamento, potrebbe essere intesa come una sorta di “alternativa” alla formula del block buster tradizionale cui ci ha tristemente abituato, negli ultimi anni, l’industria hollywoodiana.
In un certo senso Tim Story, ancora una volta al timone della macchina filmica che vede protagonisti i super eroi della Marvel, sembra essere interessato a portare avanti, nello spazio chiuso e circoscritto del suo cinema, un uso del digitale peculiare e abbastanza inedito. A differenza dei vari Peter Jackson, Sam Raimi o Michael Bay, per citare solo i nomi oggi maggiormente sulla cresta dell’onda, Story non sembra essere minimamente intimorito dalle infinite potenzialità dell’uso del computer per l’impaginazione fantastica delle proprie pellicole. Detta in altri termini: non è mai talmente affascinato dalle potenzialità del proprio mezzo da dimenticare, spesso lungamente, i fili del racconto lanciandosi, invece, in immagini rocambolesche che si dilatano nel tempo della proiezione, ma oltre gli angusti limiti dello spazio dello schermo. In una visione mitica lo si potrebbe considerare come quell’Ulisse che non si lascia stregare dal canto delle sirene digitali, che rifiuta il sogno fine a se stesso e l’immagine composta per il solo amore dell’immagine e che decide di portare in porto, fino al giusto (e prevedibilissimo) epilogo il proprio bastimento.
Contrariamente a quanto avviene nei vari King Kong, Spiderman o Pirati dei Carabi, i film della serie de I Fantastici 4 sono impressionantemente corti. In essi la narrazione procede sempre piana, lineare e senza particolari scossoni nella sua direzione giammai contraddetta e anche quegli eventuali giochi d’intarsio prodotti da un qualsiasi tipo di montaggio parallelo sono ridotti al minimo sindacale. Il massimo della complessità è dato, semmai, dall’impiego del montaggio alternato che serve, essenzialmente, a garantire un certo ritmo alle varie scene d’azione.
Da un punto di vista squisitamente strutturale non si ravvisano, in tutta l’organizzazione del racconto, episodi accessori di particolare portata o valore. La narrazione è lì, nella sua purezza archetipica, nella sua essenzialità mai contraddetta. Se un regista come Peter Jackson sembra essere ossessionato dall’idea di un racconto che cela al suo interno infinite altre possibilità di racconto, di una storia che si moltiplica e si dilata in una serie possibile di piccole altre storie quasi indipendenti e dotate di un loro fascino assolutamente autonomo, per Tim Story non sembra esistere altro che il semplice meccanismo attanziale: un gruppo di eroi cui si oppongono pochi, ma molto temibili anti eroi destinati, però, a soccombere in nome dell’immancabile happy end. In altre parole mentre le storie del regista neozelandese si ramificano all’infinito quasi ad arrivare a quel luogo utopico in cui lo spettatore quasi dimentica il punto d’origine del racconto stesso (pericolo, comunque, sempre evitato anche nei punti più estremi della trilogia de Il Signore degli anelli), per il regista americano la storia vera è solo il tronco visibile che, da terra, si slancia per qualche breve distanza, verso il cielo. Non ci sono rami. Non ci sono foglie. Non ci sono deviazioni, nella retta che separa il punto A dell’inizio dal punto B della fine.
Il problema dei film del regista americano è che, nel mettere in scena solo questa parte visibile del tronco della narrazione, ad essere negati non sono solo i rami delle altre possibili direzioni che un intreccio può prendere, ma anche le radici del discorso che, sottoterra, invisibili, motivano e danno un senso a qualsiasi operazione. Tim Story racconta sempre le sue storie come se ci ponesse di fronte ad un mero dato di fatto incontrovertibile nella sua piana semplicità. Ad un uso anche filologico del digitale che si serve dell’immagine per riflettere sul senso stesso del “raccontare”, il regista de I fantastici 4 oppone un modo di “scrivere” in cui le cose sono solo ed esclusivamente quel che si vede, non celano, né possono farlo, alcun tipo di verità ulteriore. In questo modo tutto diventa essenziale, ma finisce per diventare anche banale e sostanzialmente vacuo.
E questa vacuità di fondo finisce per appropriarsi, tristemente, non solo dei personaggi principali (privati di qualsiasi spessore e ridotti ad una bidimensionalità che non avevano neanche quando erano pensati solo per la carta stampata), ma, cosa ancor più grave, di quelli che dovrebbero essere i “cattivi” della situazione.
Da questo punto di vista il vero peccato davvero mortale dell’operazione sta tutto nell’aver ridotto un personaggio figlio della controcultura, saturnino e mefistofelico come il Silver surfer dei fumetti in un pallido clone del Terminator di seconda generazione.

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CAST & CREDITS

(Fantastic Four: Rise of the Silver Surfer); Regia: Tim Story; sceneggiatura: Mark Frost, Don Payne, John Turman; fotografia: Larry Blanford; montaggio: William Hoy, Peter S. Elliot, Michael McCusker; musica: John Ottman; interpreti: Ioan Gruffudd (Reed Richards), Jessica Alba (Susan Storm), Chris Evans (Johnny Storm), Michael Chiklis (Ben Grimm), Doug Jones (Silver Surfer), Julian McMahon (Victor Von Doom), Kerry Washington (Alicia Masters); produzione: Twentieth Century Fox, Marvel Enterprises, 1492 Pictures, Constantin Film Produktion GmbH, Dune Entertainment, Thinkfilm (Washington DC scenes); distribuzione: 20th Century Fox; orgine: USA, 2007; durata: 92’; webinfo: Sito ufficiale


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