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I Maestri Cantori di Norimberga alla Scala di Milano

Pubblicato il 4 aprile 2017 da Anton Giulio Onofri


I Maestri Cantori di Norimberga alla Scala di Milano

Nella storia del Teatro e dello Spettacolo non credo esista altro che duri quasi sei ore, compresi due fisiologici intervalli, capace di regalare lo stesso flusso permanente di felicità e letizia dei Maestri Cantori di Norimberga di Richard Wagner. Come vedere, uno dietro l’altro e in una sola serata, due o tre musical hollywoodiani dell’epoca d’oro firmati da Vincente Minnelli o Stanley Donen, da Cantando sotto la pioggia a Spettacolo di Varietà, a Sette Spose per Sette Fratelli. Al Tristano e Isotta spetta il primato dell’opera se non più bella, almeno più importante e musicalmente rivoluzionaria di un autore avventuratosi per sentieri e paesaggi sonori che nessuno aveva mai osato calcare prima di lui; per statura tragica e complessità strutturale è forse Il Crepuscolo degli Dei, l’ultima giornata della Tetralogia de L’Anello del Nibelungo, a svettare tra tutti e tredici i titoli da lui composti per la scena; ma i Maestri le superano entrambe per leggerezza, scorrevolezza, piacevolezza d’ascolto, e soprattutto per la luminosa capacità di irradiare una felicità perentoria, assertiva e pervasiva, come una storia, una favola, un aneddoto raccontati da un nonno saggio e arguto, che mentre ci affabula e seduce con giochi di parole e imitazioni istrioniche, sotto sotto ci insegna a distinguere il bello, l’onesto e l’utile, dall’errore, dalla malizia e dalla vanità del superfluo. Fin dallo squillante do maggiore della fanfara iniziale, tutto invita alla ponderazione, all’apertura di mente, all’equità di giudizio, al rifiuto di ciò che è scontato e che pertanto non può garantire l’assolutezza di una verità in continuo divenire. Ghiotta è perciò qualunque edizione in teatro di questo “Deutsche Oper” che tanto spaventa i pavidi buonisti gratuitamente preoccupati del presunto razzismo nazionalista adombrato nella tirata finale di Hans Sachs ad majorem gloriam dell’Arte degli Antichi Maestri Tedeschi. Ma quale imbarazzo può provocare la perorazione intellettualmente onestissima di un poeta calzolaio a tutela della Grande Arte degli Antichi Maestri? Nella Norimberga rinascimentale, con il sale in zucca peculiare dell’età d’argento e di quella bonomia caratteriale che ti porta ad afferrare più in fretta degli altri il senso della Storia che ti passa sotto gli occhi, Sachs è ben consapevole che l’Arte Tedesca può finalmente aspirare ad ottenere un posto tutto suo nell’Olimpo delle Arti, grazie a uno scultore e a un pittore, Tilman Riemenschneider e Albrecht Dürer, capaci di dar corpo, colore e volume, con scalpello e pennello, all’anima, allo spirito di un popolo da poco, e per tutto il periodo che precederà la devastante Guerra dei trent’anni, dotato di una salda identità nazionale. Andati in scena per la prima volta a Monaco di Baviera nel 1868, tre anni prima dell’unificazione della Germania in un unico Reich, I Maestri Cantori di Norimberga profumano ancora dell’orgogliosa fierezza di un’identità fondata sui solidi valori etici e morali di una borghesia colta e laboriosa rafforzata dagli effetti della Rivoluzione Francese, e suggestionata dai venti dei moti che scossero l’Europa intorno alla metà del secolo XIX. Spontaneo e sincero deve dunque suonare il monito di Sachs, peraltro tra i personaggi più simpatici ed empatici del teatro lirico – a differenza di Wagner, che pur sommo artista fu nella vita reale uomo decisamente pessimo: egotista, ambizioso, presuntuoso, cattivo pagatore, sfasciafamiglie, e chi più ne ha… - a stringersi tutti insieme intorno all’Arte, indelebile marchio d’identità e segno di riconoscimento imperituro, superiore alla politica, alla storia e alle sue prosaiche contingenze, che resterà per l’eternità, anche se “il Sacro Romano Impero venisse ridotto in polvere”. Il tutto, al termine di una meravigliosa storia d’amore che sa di fiaba, dove l’innamorato Walther von Stolzing deve conquistare la bella Eva vincendo una gara di canto, ostacolato, come in ogni opera che si rispetti, da un baritono goffo, arrogante e ridicolo, tra i Maestri Cantori il censore più accanito e pignolo (in cui Wagner personificò il grande nemico della sua musica, il critico Eduard Hanslick). Ed è il canto del giovane cavaliere Walther, la veemenza naturale della sua istintività melodica, il centro, il fulcro intorno al quale prende via via forma la creazione musicale, e noi assistiamo al suo farsi progressivo che diviene esso stesso tessuto narrativo dell’opera, come se un’ispirazione subitanea la dettasse sul momento alle labbra del cavaliere, istruito quel tanto che basta da Sachs, saggio e sufficientemente open minded per riconoscere in quelle arditezze d’invenzione, estranee alle regole difese con tanta ostinazione dal pedante Beckmesser, la necessaria via nuova da percorrere perché la musica nasca rigogliosa e sempre vitale, aderente ai sentimenti e alle novità di ogni nuova era. Sfondo della vicenda è Norimberga nel pieno fulgore tardogotico dei suoi edifici sacri e civili, e il suo Volk di persone per bene, fedeli alla tradizione ma, come Sachs, sempre aperte e curiose verso il Bello prossimo venturo. L’orchestra è snella, alleggerita degli eroismi nibelungici e delle grasse famiglie di ottoni, brillante come gli stemmi e gli stendardi delle corporazioni in parata nel giorno della festa di San Giovanni Battista: o addirittura agile, umoristica, onomatopeica, come nella lunga pantomima musicale senza alcun testo vocale che come la colonna sonora di un cartone disneyano imita e descrive ogni gesto e furtivo movimento di Beckmesser, penetrato in casa di Sachs dove ruba la pergamena sui cui è vergata la canzone di Walther, credendo pertanto di aver già in tasca la vittoria della gara canora, e con essa la mano di Eva; se ne ricorderà una quarantina d’anni più tardi Richard Strauss, per la pantomima che prepara la Wienerische Masquerade all’inizio del III atto del suo Rosenkavalier… Ma è anche pronta, l’orchestra, ad assecondare con la morbidezza amorevole di una poltrona accanto a un focolare i lunghi e splendidi momenti di conversazione dei personaggi tra i meglio disegnati psicologicamente e caratterialmente che il teatro musicale conosca: l’impulsivo e spavaldo Walther, forte della sua avvenenza e della propria istintualità musicale; Eva, ex bambina appena sbocciata ad una femminilità capricciosa e ancora da mettere a registro; David, il giovane, e pertanto assai meno maturo delle femminucce sue coetanee, apprendista di Sachs; il buon Pogner, padre della sposa in palio, fotografato nel momento dell’inevitabile passaggio d’età che coglie ogni papà nel mandare la figlia sposa; e infine Sachs, monumentale scultura vivente, catalogo completo dei dubbi e degli umori di quegli uomini che, tutti d’un pezzo, si soffermano volentieri a scrutarsi dentro e scandagliare insicurezze e punti deboli, in un salutare processo di autoanalisi che li sfronda via dopo ponderati ragionamenti: anche il suo è un maturo e dunque delicatissimo coming of age, quando l’età ti impone di farti da parte, rinunciare all’amore e fare largo ai giovani (come farà, ancora nel Rosenkavalier straussiano, la Marescialla Maria Theresa). Infine, l’orchestra si fa suono della festa del Volk, delle sue fanfare, dei suoi cori, delle sue danze, ma pure dei momenti di estasi poetica collettiva, come nel sublime squarcio del Quintetto a metà del III e più corposo atto dell’opera, o nel climax della prova finale di Walther, quando, dopo averne avuto assaggi qui e là nel resto dell’opera, ascoltiamo finalmente per intero il suo Preislied: qui la musica arresta ogni distrazione dell’azione scenica e concentra ogni attenzione su di sé, come unica, trionfale materia di cui è fatto il sogno che solo lei è in grado di generare…

Si è corsi dunque alla Scala di Milano per pascersi con appetito quasi adolescenziale, e senza alcun ingiustificato timore di cedere alla noia, delle sei ore in teatro, e per impiegarle come meglio non si potrebbe. Signore e mago dell’intera serata è stato senz’altro Daniele Gatti, che dopo il Tristan inaugurale dell’attuale stagione dell’Opera di Roma, con il contrappunto cantato e il pastoso lirismo di questi suoi Maestri Cantori va a formare, insieme a Kirill Petrenko (di 10 anni più giovane) il sontuoso duo dei maggiori direttori wagneriani viventi: la duttilità degli strumentini, in questa partitura personaggi altrettanto numerosi di quanti se ne vedano sulla scena in carne ed ossa, la spianata chiarezza degli ottoni, la solarità degli archi, tutto ha contribuito al racconto del soundtrack musicale, che se già con Wagner non è mai mero accompagnamento, diventa qui il racconto di se stesso: di come la musica venga “trovata” nell’aria, di come acquisti forma compiuta, del senso sprigionato dalla sua esecuzione pubblica, della sua lezione di etica, morale e di identità geopolitica e culturale. E’ a lui, al direttore d’orchestra, che il pubblico ha tributato l’accoglienza più festosa e trionfale. Del cast vocale, i consensi maggiori sono andati a Michael Volle, a suo completo agio in scena per quasi tutta la durata dello spettacolo, e a Markus Werba, la cui intenzione di restituire un Beckmesser meno macchiettistico del solito non sempre lo ha trattenuto da una gestualità troppo caricaturale e di facile effetto, tuttavia molto apprezzata in sala. Del Walther di Erin Caves, giunto in soccorso alla produzione dopo il forfait di Michael Schade, sarebbe ingiusto dire che “non c’era”, come ha malignato qualcuno: è inutile negare che l’assenza di volume e l’opacità del registro acuto hanno smorzato la carica emotiva che il Preislied, ad ogni suo apparire, ancora allo stato embrionale nel II atto, e, nella sua compiuta forma tripartita in due Stollen e un Abgesang al culmine della gara finale, dovrebbe scatenare; ma in tempi di penuria tenorile (prima della Seconda Guerra Mondiale, nel secolo scorso, ne nascevano almeno tre o quattro a decennio), va comunque apprezzata, del cantante californiano, l’onestà con la quale ha tentato di restituire la spontanea naturalezza del canto di Walther.

Di Harry Kupfer, tra i meno folli ed eccentrici dei registi lirici contemporanei tedeschi, va come sempre applaudita la coerenza con cui, insieme alla fedeltà al testo, affronta ogni nuovo spettacolo, wagneriano in particolare. È vero, qui alla Scala la sua regia, nata per una produzione dell’Opernhaus di Zurigo, è stata ripresa da Derek Gimpel, dunque può non essere del tutto sua la responsabilità della Baruffa un po’ troppo confusa, baraccona e assai poco ben gestita verso la fine del II atto, mentre non può non registrarsi l’oggettivo cattivo gusto dei mascheroni (disegnati e realizzati da una specie di Thomas Schutte dei poveri) utilizzati nel corso della parata festiva. Ma al di là di qualche altra piccola riserva che non c’è motivo di riportare, insieme alla consueta, quasi maniacale cura delle espressioni facciali e dei gesti di ogni singolo personaggio sulla scena, per definire con la maggiore ricchezza possibile i mille e mille aspetti che di tutti i caratteri la partitura wagneriana puntualmente e capillarmente descrive in termini sonori con altrettanta ricchezza di dettagli, va riconosciuto a Kupfer il fortissimo impatto dell’idea alla base della sua regia: nella seconda metà del ‘500, cioè negli anni in cui ha luogo la vicenda dei Maestri Cantori, Norimberga era una città di bellezza pari alla nostra Siena, e come Siena ricca di chiese, cattedrali, fortilizi ed edifici pubblici di qualità mozzafiato. È stato lo scrittore tedesco W. G. Sebald a richiamare l’attenzione sul pudore, anzi sull’imbarazzo con cui dopo il 1945 i tedeschi, impegnati a scrollarsi di dosso il peso e le responsabilità delle atrocità del Nazismo, non si siano preoccupati di mostrare al mondo l’immane tragedia di ritrovarsi a vivere in una nazione rasa al suolo da bombardamenti che con la precisa intenzione di cancellarne la memoria ne hanno praticamente distrutto quasi completamente il sembiante. Nei lunghi anni del dopoguerra, nessun regista cinematografico, nessuno scrittore, nessun artista, hanno pensato di rivendicare il diritto di piangere, come fece, a rovine ancora roventi, Richard Strauss con le sue Metamorphosen, il lutto per la perdita del proprio splendido passato artistico e architettonico. Kupfer inizia il racconto di questi suoi Maestri Cantori di Norimberga tra le rovine di una cattedrale gotica, sorrette da ponteggi che ne palesano il restauro in corso. Nel II atto, alla cattedrale in ricostruzione sistemata su una pedana girevole che la trasforma di volta in volta in altre rovine, quelle della casa e della bottega di Sachs, o quelle delle mura della città, si aggiungono sullo sfondo delle gru e dei cantieri impegnati in una ricostruzione entrata ormai in una fase più avanzata. Nel III atto, sempre sullo sfondo, la ricostruzione della moderna Germania è ormai completata, e oscurano il cielo alti grattacieli e palazzoni, sedi del potere economico e finanziario. Ma il prato su cui ha luogo la festa di San Giovanni Battista è ancora e sempre occupato dalle rovine della cattedrale diruta, i cui ponteggi funzionano ora da spalti e tribune per il Volk che assiste alla parata e alla tenzone canora. Straordinario, pertanto, è il coup-de-théâtre a pochi minuti dall’esultante conclusione dell’opera, quando Sachs, che ha appena esaltato i valori eterni della “heil’ge deutsche Kunst”, ovvero della “sacra arte tedesca”, invitando il popolo (e, almeno alla prima rappresentazione monacense del 1868, il pubblico in sala) a onorare gli antichi maestri e a evocarne i loro “buoni spiriti”, scopre la statua del Giovanni Battista di Tilman Riemenschneider: in questo preciso istante, la prospettiva della meravigliosa statua lignea del massimo scultore tedesco del XVI secolo svettante sulle moderne torri di recente costruzione, cui il destino, visti i tempi, potrebbe riservare sorte identica a quella delle città polverizzate tra il 1942 e il 1945 dal “moral bombing” delle forze alleate, acquista una potenza evocatrice che dà i brividi: i versi dello stesso Wagner, quel “Sacro Romano Impero ridotto in polvere”, si rivelano profetici quanto l’invocazione a stringersi intorno all’Arte, tedesca o quel che sia, perché è grazie ad essa, e ai Maestri Antichi, che una nazione – ma oggi potremmo dire un mondo intero – conserva il ricordo di sé, e può tramandarlo per l’eternità.


(Die Meistersinger von Nürnberg); di Richard Wagner; Direttore d’orchestra: Daniele Gatti; Regia: Harry Kupfer; Interpreti: Michael Volle, Erin Caves, Markus Werba, Jacquelyn Wagner, Peter Sonn, Albert Dohmen; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala; produzione: Opernhaus di Zurigo


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