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I magnifici sette al nostro soccorso

Pubblicato il 5 ottobre 2016 da Antonio Pezzuto & Mazzino Montinari


I magnifici sette al nostro soccorso

E oggi parliamo de I magnifici 7 diretto da Antoin Fuqua, nero, cinquantenne, Costretto a uccidere e Training Day nella sua filmografia. Sta lavorando a una biografia su 2pac Shakur. Si tratta del remake di un film omonimo diretto da John Sturges nel 1960, che, a sua volta, derivava dal film di Kurosawa, I sette samurai, e che ha avuto numerosi sequel (Il ritorno dei magnifici sette, Le pistole dei magnifici sette, I magnifici sette cavalcano ancora, un’omonima serie televisiva, e Battle Beyond the Stars, che era un progetto di Roger Corman ambientato nello spazio). Il film era a Venezia, io e Mazzino siamo andati diligentemente a vederlo assieme a una amica antropologa che in opposizione “a questo vostro stile di critica cinematografica tu-per-me-per-te-per-me” (o da “uomini in folle”, che non vanno né avanti né indietro, direbbe Mazzino parafrasando una nota rubrica) si è rifiutata di dirci cosa ne ha pensato persistendo nel suo perdersi volteggiando vaga tra gli scritti di Fortini.

Per cui, questa volta da soli, inizio io e parto da molto molto lontano, da Carbonara, in provincia di Bari, nel 1946, dove è nato Simone Carella, che da qualche giorno è morto, e sul quale stanno scrivendo un sacco di persone e io non sarò certo tra loro. Animatore del Beat 72, ha fatto mille cose, arrivato a Roma dove non conosce nessuno, fa lavori strani, poi conosce delle persone a Piazza di Spagna, e inizia a imparare cose nuove. E queste persone che conosce iniziano a diventare gli amici, poi i colleghi di lavoro, i rapporti si modificano, si cresce, si creano famiglie che diventano villaggi che si allargano e si cancellano i confini, è l’Universo il nostro Stato. Erano gli anni dell’essere collettivo, del fare gruppo, del sostenersi l’un l’altro. Erano gli anni dove ci si difendeva reciprocamente e si attaccava tutti insieme. Dove era possibile non saper fare delle cose: altri ti avrebbero aiutato.

Ammettere di non saper fare, ammettere che da soli non possiamo fare tutto, è percorso complicato ed è quello che fanno i villici del paesino in cui è ambientato I magnifici sette, che non sanno difendersi, e sanno che non ce la possono fare. La trama del film è semplice: un cattivo vuole i terreni dei contadini per farci una miniera. I contadini non vogliono vendere, il cattivo ha i suoi sgherri che uccidono i villici e pure il prete. Due di questi paesani, con un po’ di soldi nella borsa, partono alla ricerca di qualcuno che li possa aiutare. Trovano un pistolero che recluta altri sei pistoleri. I sette vanno nel paese e organizzano la resistenza. I sette sono veri uomini. Loro sanno quello che si deve fare. Essere creativi, difendere e aiutare gli altri. Come facevano gli hippie negli anni Sessanta, i gruppettari negli anni Settanta, i Ciellini negli anni Ottanta e poi qualcun altro di sicuro negli altri anni. Difendono e aiutano, vogliono soldi, ma solo perché non si fa mai nulla per nulla. Rischiano consapevolmente tutto, e di quei soldi, molti di loro, non sapranno mai che farsene.

Dico questo a Mazzino, che replica: “L’hai presa molto alla lontana. E comunque non mi affatica percorrere una strada lunga, perché più ci mettiamo ad arrivare al cuore del film meglio è, dato che questo remake è veramente poca cosa. Ammettere di non saper fare qualcosa è dura, soprattutto in un momento come il nostro dove il precariato ti costringe a mistificare le tue lacune e a falsificare le competenze, altrimenti sei perduto. I magnifici sette da un certo punto di vista sembrano richiamare a un modo antico di fare le cose. Mettiamoci insieme e riusciremo a ottenere un risultato. La percezione che abbiamo del nostro mondo è che ci si mette insieme solo in senso verticale. Io sono più forte di te e dunque o stai con me o ti schiaccio. Che poi, a pensarci bene, è anche la logica del cattivo del film, Bartholomew Bogue. Avrei da ridire, però, sulla dinamica per niente orizzontale tra i cosiddetti buoni e le vittime perseguitate da Bartholomew Bogue”.

Mi soffermo sul “richiamo a un mondo antico”, la questione del tempo che passa è questione delicata. Io di antico nei cow-boy di Fuqua ci vedo solo l’accettare il rischio di morire per una idea, che oggi da un lato direi che non fa proprio parte del nostro orizzonte degli eventi, ma poi ti giri e vedi che quelli che rischiano la propria vita per le loro idee, o per la loro fede, sono, in questi anni, dominanti. Si mettono insieme non per raggiungere “il risultato”, ma per aggiungere un tassello a un progetto più grande, che prescinde dalla nostra persistenza ma non dal nostro gesto. Siamo parte di un disegno molto più grande di quello che riusciamo a vedere. E questo modo di pensare, credo, è l’unico modo che può consentirci di mettere tutto in gioco: sentirsi parte di una comunità, essere parte di una comunità. E tutti noi possiamo essere uno di loro. Dei terroristi, dei villici spaventati, o dei magnifici sette.

Mazzino non mi sembra in sintonia: “In realtà, a dominare sono quelli che convincono altri a morire per idee che non esistono, come ad esempio quella di un dio. Ma secondo te I magnifici sette lottano per un’idea? E quale sarebbe? Quella che con la violenza liberi una massa che non ha idee, che è pronta a farsi soggiogare dal più forte di turno e che al massimo potrà sposare prima o poi la tesi che solo sparando si ottengono le cose? Finché pensiamo a qualcuno che dall’alto possa riscattare quelli in basso saremo sempre all’interno di un rapporto tra dominanti e dominati. E da questo punto di vista I magnifici sette sono il manifesto ideologico di un tale pensiero”.

E credo che sia giusto questo, ma è giusto solo se si riesce a creare una distanza dalla situazione. E mi torna in mente Giuseppe Palladino, dalla sua stanzetta nel manicomio di Santa Maria della Pietà. Anche lui credeva di essere uno di loro. Raccontò la sua storia, alla fine degli anni Novanta, Paolo Pisanelli. Il film era Il magnifico sette, ed era la storia di un uomo che pensava di essere Robert Vaughn (che del film originale, quello diretto da Sturges, era uno dei protagonisti). Palladino confondeva il vero con falso, parlava di sparatorie e di elettroshock, parlava di America, della sua carriera di attore e degli altri malati mentali, come lui chiusi nel manicomio romano.

Io non credo che questo remake sia poca cosa, certo è un film leggero, manifesto ideologico di un pensiero che non mi appartiene. Ma forse è anche colpa mia che non reggo più vedere film sui quali siamo tutti d’accordo. Mi piace questo film che mi permette di immedesimarmi in altro, che quando esci dalla sala cammini come se avessi fatto una lunga cavalcata e con le mani alla cintura. Mi piace il cinema che mi permette di credermi altro, non necessariamente credersi bello, ma parte di qualcosa che prescinde dal mio corpo, dal mio tempo o dalla mia situazione concreta.

E su questo Mazzino è forse più lucido di me, e dice: “Altro discorso è perdere il rapporto con il proprio corpo e la propria condizione esistenziale per aprire (non mi viene in mente altro verbo) una relazione con un’idea altra da me che però può portarmi a pensare un riscatto o una ribellione. Allora sì, mi vanno bene le pistole, i duelli, le carneficine. Ma un’altra volta elimino I magnifici sette che è un film piatto senza fantasia, senza alcun tipo di scarto e mi tengo Gli spietati, per non andare troppo indietro nel tempo. Tu potresti replicare che nel lavoro di Clint Eastwood non c’è collettività ma solo questioni personali, l’amico ucciso, la donna sfregiata. Ma c’è anche il disvelamento della violenza, di cosa significhi realmente uccidere per un’idea giusta o sbagliata che sia. I tuoi terroristi che difendono le idee, ci pensano a questo? Non credo. Uccidono innanzitutto per il piacere di uccidere, poi caso mai trovano un senso a quello che hanno fatto, ammesso che facciano in tempo, perché muoiono prima, e dopo non c’è nulla a cui pensare”.

E sulle motivazioni dei terroristi non so proprio cosa replicare. Forse ci servirebbe sentire una amica antropologa, ma non sempre, quando chiedi aiuto, chi ti può aiutare viene a salvarti.


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