Toni Erdmann e i padri oppressivi
Lontani da casa, in Romania, dopo tre ore di attesa, Ines Conradi, la figlia di Winfried, in arte Toni Erdmann, entra nell’atrio del palazzo dove lavora, vede il padre che la aspetta ma non lo saluta. Poi il genitore gli dirà “pensavo che non mi avessi riconosciuto”, e lei lo rassicurerà.
Dare o negare il saluto è cosa importante. Non è solo gesto affettato e di cortesia, ma è segnale che indica appartenenza a una comunità. E il modo in cui ci si saluta, permette anche di capire che tipo di relazione c’è. Lo sapeva benissimo il Gatto con gli stivali, che sul saluto dei contadini riesce a costruire un futuro radioso per il suo padrone. Lo sanno i militari che, a distanza di un centinaio di anni e ancora oggi, portano la mano alla fronte, a ricordo del vecchio gesto quando con quella mano e con quel gesto si alzava la visiera dell’elmo, e ci si faceva riconoscere. E si faceva così capire che si era parte di un tutto.
Ines non si ricorda più quel tutto di cui fa parte. Certo è sempre la figlia, torna a casa i giorni prima del compleanno, ma, “culturalmente”, è persona diversa. Fa finta di non riconoscere il padre, anche se lo vede, ma poi capiremo che in realtà è il padre a non riconoscerla più.
Vi presento Toni Erdmann diretto da Maren Ade, racconta (anche) di questo lungo percorso che alla fine dovrebbe portare a far si che padre e figlia siano veramente Padre e Figlia. Perché la paternità non è solo questione genetica ma è un sistema di relazioni complesso. Di relazioni dell’uomo con la madre, con il bambino, con la società, con la famiglia. Lo aveva raccontato anni fa anche Aleksandr Sokurov, che dopo Madre e figlio girò nel 2003 Padre e figlio, Otets i syn secondo film di una trilogia che non è stata ancora completata, e film che aveva come sottotesto l’idea per la quale il sistema di relazioni in una famiglia è assimilabile a una catena, dove l’anello debole, l’unico anello debole, è quello tra padre e madre, che troppo facilmente si può sciogliere, non essendoci legame di sangue che lo consolidi. Diceva questo, Sokurov, in un’intervista che realizzai a Torino, nello stesso albergo dove si era suicidato Pavese, per «il Manifesto» quando nel 2003 il Festival gli organizzò una retrospettiva. Quella intervista «il Manifesto» non la pubblicò mai, e Mazzino subito sottolinea, con mal celato sarcasmo, che è molto triste questa storia dell’intervista mai pubblicata e che potrebbe aprire una questione interna al film sul lavoro e le frustrazioni che oggi come ieri comporta l’instabilità. Perché anche di questo il film racconta.
Ma torniamo alla relazione e alla catena ingarbugliata e a Winfried/Toni Erdmann che usa ironia, relazioni assurde, maschere bulgare e il fingersi altro, con altri denti e altri capelli, per riuscire a far si che la figlia lo veda, E che a sua volta si veda. Travestirsi per tornare a essere se stessi. Nascondersi per farsi vedere.
Mazzino nota come Winfried, che d’ora in avanti chiameremo Toni, e Ines siano speculari e al tempo stesso si pongano agli antipodi. Entrambi si impegnano in una finzione continua, solo che Toni lo fa per tornare se stesso, per spingere l’altra a tornare se stessa (ammesso che si fosse persa) e per ricostruire un mondo che si sta disgregando (il discorso della fabbrica che si “esternalizza” è una metafora, no?); mentre Ines finge, per mistificare una realtà, per modificarla, per ottenere un risultato (in realtà a vantaggio di altri, ovviamente pochi), non certo per ricostruire un quadro. Toni e Ines, sostiene Mazzino, dimostrano che non sono i comportamenti in quanto tali a essere giusti o sbagliati, e nemmeno che la verità abbia un valore superiore alla finzione, ma che tutto sta nell’attenzione che metti verso il prossimo, nel saper vedere cosa ti accade accanto.
Con questo però né io né Mazzino vogliamo porci dalla parte di Toni contro Ines. “Tutti in certi momenti abbiamo avuto un contrasto con i genitori quando ci accusavano di non essere più noi stessi”, dice Mazzino. E Ines, come molti di noi, ha un padre che si impone per dire come si deve essere. Che ricorda che si è figli per sempre. E che per sempre si appartiene a un nucleo. Cavolo, nel frattempo i figli crescono e il mondo circostante si modifica, e non poco! E con il mondo ci modifichiamo anche noi.
“Toni è simpatico e noi siamo pronti a empatizzare con lui immediatamente; tuttavia, a un secondo sguardo, dovremmo prendere le parti di Ines e, come lei, toglierci i vestiti che abbiamo ereditato da mondi precedenti”, aggiunge Mazzino che forse ora vede altre storie, e non più solo quella dell’uomo con la dentiera nel taschino della camicia.
E poi se Ines fosse stata un maschio non avrebbe mai permesso a quel padre di entrare nel nostro ristorante e di sedurre le nostre amiche. E quel padre non avrebbe mai discusso su come il figlio si gestisce la carriera. Al limite, ne avrebbe approfittato, di quella carriera, come la recente cronaca di un nostro ex Presidente del Consiglio dimostra.