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Ida

Pubblicato il 29 marzo 2014 da Matteo Galli
VOTO:


Ida

Si deve alla co-distribuzione di Lucky Red e della piccola, preziosa casa padovana Parthénos, fondata neanche tre anni fa, l’arrivo in Italia di Ida, il film polacco di Pawel Pawlikowski, preceduto da una serie di presenze ( e anche di premi) ai festival internazionali (in Italia è passato a Torino).

Polacco, ma di formazione inglese e con trascorsi universitari oxoniensi, Pawlikowski è regista, non propriamente prolifico ma tutt’altro che ignoto al pubblico internazionale, anche in Italia dove erano già passati due film molto apprezzati My Summer of Love, melodramma queer al femminile, ambientato nello Yorkshire e Last Resort, una vicenda ambientata fra la Russia e Londra.

Sul piano concettuale e iconico Ida - il primo film polacco di questo regista nato in Polonia - è due cose allo stesso tempo: da un lato una vicenda tragica che viene a iscriversi, senza niente usurpare, nell’amplissimo canone di film sulla shoah ovvero, in questo caso, sui film dedicati ai sopravvissuti della shoah, dall’altro un omaggio, squisitamente colto privo tuttavia di vezzi postmoderni, al cinema del tempo e del luogo in cui è girato, un espediente al quale il cinema soprattutto hollywoodiano non di rado ricorre, già meno spesso il cinema d’autore. Qui l’omaggio di Pawlikowski va al nuovo cinema polacco dei primi anni ’60: bianco e nero, formato quadrato tipo 16mm, atmosfere rarefatte, scarsezza di dialoghi, inquadrature fisse.

Il film è infatti ambientato nel 1962 e – piccolo difetto di un’altrimenti ottima pellicola- parte da un espediente drammaturgico non del tutto convincente: pochi giorni prima di farsi suora la novizia Anna, orfana e cresciuta in convento, viene avvertita dalla superiora che deve assolutamente andare in città a conoscere l’unica parente in vita, la zia Wanda. Obbediente Anna ci va e viene sapere tante di quelle cose sul proprio conto, sul conto della propria famiglia, sul conto della propria zia, che anche metà sarebbero bastate a destabilizzare completamente la sua giovane esistenza e forse i suoi fermi propositi. La zia, ad esempio, è un’ebrea sopravvissuta allo sterminio, partigiana, in seguito denominata “Wanda la sanguinaria” per aver mandato a morte, nella sua qualità di giudice del popolo, un bel po’ di connazionali, adesso emarginata, disillusa, narcotizzata da alcool e da compagni occasionali. Anna, ad esempio, non si chiama affatto Anna, si chiama per l’appunto Ida, è ebrea anch’essa e non immagina neanche lontanamente che cosa all’incirca vent’anni prima sia successo. A un primo problematico approccio fra le due donne fa seguito un doloroso, in qualche modo affettuoso, itinerario di conoscenza reciproca con punte di autentica provocazione cinico-maieutica da parte della zia: sulla religione, sull’amore, sul sesso, sulla memoria. Itinerario in senso letterale, poiché le due donne si mettono in macchina e vanno alla ricerca dei modi e dei luoghi in cui i genitori di Ida hanno trovato la morte. Ne risulta un quadro agghiacciante di delazione, sopraffazione, menzogne, violenze.

Come ogni viaggio, come ogni road movie che si rispetti, anche il viaggio di zia e nipote è un viaggio di formazione e crescita per la più giovane che scopre sì il proprio tragico passato ma anche lacerti di quella vita potenziale che la scelta dell’abito claustrale le pregiudicherebbe, in modo pressoché definitivo. Il lacerto più significativo è, se non la scoperta dell’amore, certamente la scoperta del proprio corpo e del corpo dell’altro, un musicista che suona, in un’orchestrina girovaga, hits dell’Europa Occidentale (come già in Ti ricordi di Dolly Bell di Kusturica anche qua: 24.000 baci) e un po’ di jazz, ciò che dà vita a un incontro dagli esiti vertiginosamente nichilistici: la prospezione in avanti dei due amanti lascia intravedere a neanche troppa distanza temporale un abisso di infelicità e di noia. Alla zia è il nuovo incontro con il proprio passato, faticosamente rimosso, a dare il colpo di grazia, inducendola a un salto nel buio – che ricorda tanti tragici passi compiuti dai sopravvissuti alla shoah: Paul Celan, Primo Levi - mentre il giradischi suona proprio ciò per cui, secondo il Woody Allen di Manhattan, valeva la pena vivere, il secondo movimento della Sinfonia “Jupiter”.

In questo film, fra le altre cose, molto polanskiano si teme per qualche istante che anche la nipote possa fare, magari per altre ragioni, la stessa fine (L’inquilino del terzo piano insegna), avendone assunte per prova, per gioco le sembianze . Ma poi Ida torna a vestire i panni di Anna, seguita, anzi anticipata dalla macchina da presa che finalmente si muove per accompagnarla “a casa”.


CAST & CREDITS

(Ida); Regia: Pavel Pawlikowski; sceneggiatura:: Rebecca Lenkiewicz, Pavel Pawlikowski; fotografia: Ryszard Lenczewski, Lukasz Zal montaggio: Jaroslaw Kaminski; musica: Kristian Eidnes Andersen; interpreti: Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska; produzione: Opus Film, Phoenix Film Investements; durata: 80’;


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