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Il cacciatore di aquiloni

Pubblicato il 31 marzo 2008 da Marco Di Cesare


Il cacciatore di aquiloni

Dal punto di vista strettamente teorico, la critica cinematografica dovrebbe tenersi alla lontana dai facili paragoni sempre in agguato quando si tenta di analizzare un’opera filmica che sia anche trasposizione di un’opera letteraria. Perché evidenti sono le differenze che permangono tra il vedere e l’immaginare e tra i livelli di astrazione che si frappongono tra la parola e l’audiovisualità, così come la maggiore autonomia del lettore e la sua lentezza quando immagina tra le righe, è cosa ben diversa dal trovarsi nello stato di superiore passività dello spettatore, il cui sguardo puro è posto di fronte all’improvvisa e sintetica subitaneità proiettata sullo schermo, telone di un bianco che completamente puro mai potrà essere e che, al pari di qualsiasi altro supporto di e per l’arte, vorrebbe sollecitare e illuminare i nostri sensi: ma attraverso la specificità che lo contraddistingue. Purtroppo, però, esistono casi, anche frequenti, nei quali l’audiovisivo vive solamente in quanto emanazione della pagina scritta, senza possibilità di sopravvivere ad essa, tanto da divenire quasi un suo ascesso, che sarebbe meglio estirpare dalla nostra memoria, perché inutile e irritante quando ci ricorda che le infinite potenzialità del cinema possono facilmente essere intrappolate a causa dell’imperizia delle mani che lo manovrano.
Nel caso specifico il romanzo di Khaled Hosseini, dal quale è stato tratto l’omonimo film di Marc Forster (Monster’s Ball e Neverland), è tutt’altro che perfetto, in particolare per quanto riguarda l’aspetto più propriamente letterario e per alcune situazioni che rimangono fin troppo prevedibili: però, in esso perdura un afflato di pathos, una capacità di ricostruire un luogo (l’Afghanistan) e un tempo ormai lontani (gli anni della pace), che hanno saputo come attrarre l’attenzione emotiva di tanti lettori. Per realizzare un paragone cinematografico, sarebbe possibile intravvedere nella storia dell’amicizia (?) tra il ricco pashtun Amir e il (quasi) coetaneo Hassan, umile servitore hazara nella sua casa nella Kabul degli anni Settanta, un ricordo del Novecento secondo Bertolucci; così come nelle gesta vili di Assef si potrebbe ritrovare la ’macchiettistica’ violenza fascista dell’Attila interpretato da Donald Sutherland. E Hosseini sa parlare un linguaggio internazionale, una storia che racconta di perdono e di viltà: la viltà di Amir che tradirà l’amicizia dell’agnello sacrificale Hassan e il senso di colpa che il primo porterà con sé, in America, dopo esser fuggito dall’invasione sovietica assieme al padre Baba (Homayon Ershadi, protagonista nel 1997 de Il sapore della ciliegia del maestro Kiarostami e qui assai convincente nel saper andare oltre il personaggio letterario), del quale cerca costantemente di conquistare l’amore e il rispetto; rispetto che, con gli anni, raggiungerà nella terra delle opportunità, affermandosi come scrittore dalla stabilità molto borghese; ma con sé sempre il cruccio che lo tormenta, fino a quando riceverà una telefonata dal suo Paese natio, pochi mesi prima che crollino le due Torri, perché «Esiste un modo per tornare a essere buoni»: ma solo se si avrà il coraggio di tornare in Afghanistan, per espiare i propri peccati e mettere in discussione la propria esistenza, guardando la propria patria con occhi nuovi e adulti, vedendo finalmente la realtà come essa è sempre stata, fino a che non è deflagrata con violenza.
Tutto molto filmico, forse; tutto comunque filmabile, probabilmente. Invece Forster, lo sceneggiatore David Benioff (La 25a ora) e il compositore Alberto Iglesias (qui di certo dimenticatosi di aver accompagnato il cinema di Almodovar negli ultimi dieci anni, o anche di aver fatto parte di The Constant Gardener) hanno confezionato un prodotto. Un mero prodotto: nulla di più, senza alcuna personale ispirazione. Un film che fin troppo si premura di ri-rappresentare quanto già era stato impresso nel romanzo, appoggiandosi completamente ad esso nei tanti momenti in cui non riesce ad organizzare adeguatamente la narrazione ma con, in più, la presenza di improvvide ed impreviste semplificazioni. Come avere accanto, in sala, la voce di un vicino di poltrona che di continuo biascica inutili e irritanti parole di spiegazione, per azzittirsi improvvisamente, quando ci eravamo ormai abituati alla presenza del suo basso continuo, perché non sa più in quale direzione i suoi pensieri stiano vagando. Il tutto per una durata di 131’, che ancor più mettono in risalto la scarsa capacità di orchestrare i tempi del racconto e di legare le scene e quanto esse racchiudono, al fine di suscitare emozioni. Mentre la presenza della musica si fa fin troppo pressante, didascalica, utile solamente quando, soffusa, riesce a sottolineare due scene di inquietante prevaricazione; per il resto solo pervasive partiture simil-Asia Centrale, ma senza riserbo, falsificando così qualsiasi presunta gioia dei due protagonisti da giovani.
E non possono bastare i volti di attori afgani praticamente sconosciuti al grande pubblico occidentale e le gesta di bambini che - nonostante la loro bravura di non professionisti, come nel Neorealismo iraniano - dovrebbero concorrere a restituire una parvenza di realtà. Perché la Realtà non è cosa viva ad Hollywood. Così come proprio la prima parte, quella che dovrebbe spiegare la nascita del legame tra Amir e Hassan, non risulta credibile, perché non necessariamente attenta ai risvolti psicologici del loro rapporto; da ciò ne conseguono inevitabili ricadute per l’intero film. E a quel punto bisognerebbe che lo spettatore ricorresse ai ricordi lasciati fra le pagine di Hosseini, per ricostituire quel tessuto che dovrebbe legare emozione ad emozione; altrimenti, se a digiuno del romanzo, potrebbe anche perdersi. Ma qualunque tipologia di spettatore non potrà che smarrire l’affresco storico che si cela dietro una storia che narra di individui dalla Storia soggiogati: come accade dovunque, anche se in Afghanistan, la terra del Sacrificio, questa situazione dura da fin troppo tempo.


CAST & CREDITS

(The Kite Runner); Regia: Marc Forster; soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Khaled Hosseini; sceneggiatura: David Benioff; fotografia: Roberto Schaefer; montaggio: Matt Chesse; musica: Alberto Iglesias; interpreti: Khalid Abdalla (Amir), Homayon Ershadi (Baba), Shaun Toub (Rahim Kahn), Atossa Leoni (Soraya), Ali Danesh Bakhtyari (Sohrab), Zekeria Ebrahimi (Amir bambino), Ahmad Khan Mahmidzada (Hassan bambino), Elham Ehsas (Assef giovane), Abdul Salam Yusoufzai (Assef); produzione: DreamWorks SKG, MacDonald/Parkes Productions, Neal Street Productions, Participant Productions, Sidney Kimmel Entertainment, Wonderland Films; distribuzione: Filmauro; origine: U.S.A. 2007; durata: 131’; web info: sito italiano.


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