Il cacciatore di giganti

Bryan Singer aveva bisogno di una vacanza. Lo aveva detto in ogni occasione, lo aveva ribadito in tutte le interviste che erano venute dopo l’enorme fatica di Operazione Valchiria. Quello che gli serviva era un divertissment di poca pretesa, una storia che gli permettesse di non doversi troppo confrontare con le contraddizioni lacerate e sofferte della Storia, un film che fosse prima di tutto gioco, libero sfogo di una fantasia creatrice non più costretta a confrontarsi col bisogno di discorso.
Il cacciatore di giganti, in fondo, è proprio questo: un esercizio su una semplice struttura archetipica, un momento di relax all’interno di un contenitore di genere che non tende al superamento dei propri limiti interni, un racconto che se ne sta piano nel placido letto fluviale di una narrazione che non sfida se stessa, ma si accontenta di muoversi placida sotto un cielo senza sorprese.
Il fantasy, come genere, si presta a questo bisogno franco di evasione. Sfonda le dinamiche spaziali, crea mondi alternativi, rompe con il bisogno di adesione di realismo e lascia il proprio spettatore in uno stato ambiguo che non abbisogna di troppe spiegazioni.
Il genere diventa così, per il regista de I soliti sospetti, una valvola di sfogo che sfiata la troppa pressione dei film precedenti in un puro desiderio di affabulazione. E le regole che definiscono il percorso, sono paletti da seguire per restare su un sentiero che, se non porta troppo lontano, almeno definisce un percorso da seguire con tranquillità.
I paletti del percorso non vengono, comunque, seguiti con l’assoluta piattezza che ci si aspetterebbe da un regista che si dichiara ad ogni passo in vacanza dal suo bisogno di inseguire ossessioni che vogliono correre anche in altre direzioni. In verità, anzi, si ha l’impressione che la struttura narrativa segua un percorso a due teste, come il generale dei giganti che diventa personaggio cerniera di due anime diverse del racconto.
La prima è l’assoluta adesione al modello narrativo fiabesco e ingenuo della storia di Jack (ottimo Nicholas Hoult, ormai quasi un attore feticcio per Singer) e della pianta magica che sfonda le nuvole per portare nel castello dell’arpa fatata e della gallina dalle uova d’oro. Racconto sognante, appena arricchito dall’inserto di una controparte femminile che, nella realtà, è il riflesso speculare dello stesso Jack: due facce di una medaglia attanziale destinata a cadere sul lieto fine conclusivo.
La seconda è, invece, quella del racconto fantasy di invasione e battaglie, coi giganti che scendono in massa dalle nuvole per prendere possesso delle terre dalle quali furono banditi e per aggiungere l’uomo nel loro menù condannato alla monotonia di pecore e montoni.
Due logiche narrative congiunte e non antitetiche che definiscono uno sviluppo più adeguato ai gusti del pubblico contemporaneo e che non tradisce le origini fiabesche dello spunto, ma le inalbera, sul modello de Il Signore degli anelli, in una logica narrativa da videogioco o da gioco di ruolo così come potrebbe piacere ai giovani d’oggi.
L’anima fanciullesca e fiabesca è così stilizzata nella testa infantile del gigante, l’anima guerresca si incarna, invece, nella seconda testa, quella che ragiona per strategie militari, quella che parla, quella che ha imparato l’arte del governo e del comando.
La testa infantile è quella legata al contesto favolistico. Del resto già il gigante della favola non brillava particolarmente per doti intellettive ed era tanto grande quanto stupido. E il legame col mondo della fiaba è esemplificato da un gesto forte: è la testa bambina a scorgere a terra, quasi invisibile, il sacchetto dei magici fagioli caduto al malvagio principe degli uomini, mentre è quella adulta dello stratega a soffiarli a terra perché ne nascano le piante che creano un ponte tra la terra dell’Uomo e quella dei giganti.
La non completa adesione ai canoni della narrazione fantasy contemporanea sta tutta qui: in questa consapevolizzazione narrativa, ad un passo dal post moderno puro e semplice, delle strutture narrative messe in campo. Ma soprattutto respira nel rifiuto, assolutamente atipico nel fantasy contemporaneo, ad un racconto aperto alla serialità.
Il cacciatore di giganti che avrebbe tutti gli ingredienti narrativi per allargarsi se non alla trilogia, almeno al dittico, preferisce, infatti, chiudere il suo arco narrativo in questa atipica narrazione a due teste che potrebbe apparire strana, ma, nel concreto, ci pare funzionale. E, alla fine, il film chiude il cerchio delle sue premesse senza lasciar spazio a possibili futuri sviluppi.
Il racconto si conclude e, con gesto registico e narrativo consapevole, si consegna alla leggenda. La storia di Jack, passando di bocca in bocca, nella magia dell’oralità, si trasforma, si modifica diventando quella che noi tutti conosciamo oggi. Ed è nell’oggi che si consuma l’epilogo, con la scena della scolaresca che, in gita d’istruzione, visita i luoghi del racconto lasciandoci a intendere che, sopra le nostre teste, ci sono davvero giganti che spostano i mobili per fare tuoni.
Sicché l’intero arco narrativo avvera, sul finire di pellicola, un percorso che va dal Fantastico al Reale. Percorso a suo modo inverso per un regista che nei suoi film per Supereroi aveva sempre cercato di portare la Storia nel mondo alternativo dei suoi racconti.
La vacanza non è stato un viaggio di sola andata. Il ritorno porta impresso, nel puro bisogno di raccontare, anche la vera motivazione che spinge al racconto: ricordare, sempre, ad ogni passo, quel dolore dal quale veniamo.
(Jack the Giant Slayer); Regia: Bryan Singer; sceneggiatura: Dan Studney, Christopher McQuarrie; fotografia: Newton Thomas Sigel; montaggio e musica: John Ottman; interpreti: Ewan McGregor, Nicholas Hoult, Stanley Tucci, Warwick Davis, Bill Nighy, Ian McShane, Ewen Bremner, Eddie Marsan, Eleanor Tomlinson, John Kassir, Ralph Brown, Ben Daniels, Daniel Lapaine, Lee Boardman, Angus Barnett; produzione: ndary Pictures, New Line Cinema, Original Film; distribuzione: Warner Bros. Italia; origine: USA, 2013; durata: 114’
