IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA

Prima di bollarla con l’etichetta già pronta e preconfezionata di “pellicola delicata e intimista”, riteniamo di poter dipingere l’opera seconda di Byambasuren Davaa come un vero e proprio racconto zen.
Ancora una volta, come già nel precedente La Storia del Cammello che Piange, che l’aveva rivelata al pubblico di tutto il mondo, c’è un animale al centro della vicenda narrata. Per i buddhisti, come i membri della famiglia Batchuluun, gli animali non sono però solo fonte di nutrimento, graziosi compagni di svago per i nostri bambini o ambiti trofei da esibire. Perciò quel misterioso cagnolino solitario apparso improvvisamente nella vita dei protagonisti del film, potrebbe averlo davvero condotto il destino presso di loro, come intuisce la madre. Qui i cinque protagonisti, padre, madre e tre figli piccoli, sono anche nella realtà componenti della medesima famiglia, che si presta ad essere spiata dall’occhio indiscreto della macchina da presa nei suoi momenti di intimità domestica, recitando tuttavia battute previste da un copione (dato che la trama, seppure esilissima, esiste e sostiene l’ora e mezza di racconto per immagini).
La poesia nel racconto scaturisce in massima parte dalla suggestione delle sterminate pianure mongole che si estendono a perdita d’occhio sotto il nostro sguardo e vengono trattate dalla regista come prodigiosi fondali dipinti ancorché naturali. Ma l’approccio e il taglio della pellicola sono eminentemente documentari: impossibile non riandare con la mente al grandissimo cinema, anch’esso di impianto antropologico, del maestro del genere Robert Flaherty. E’ difatti estremamente interessante, anche se a prima vista estraneo alla vicenda principale che da il titolo al film, il tema della trasformazione del Paese mongolo, coi pastori nomadi che decidono, l’uno dopo l’altro di emigrare verso le città. Il padre effettua i suoi spostamenti ormai indifferentemente a cavallo o in moto e torna dai suoi viaggi con strani doni tecnologici: una torcia elettrica, un utensile in plastica (che però, significativamente si rivela inutile, dato che l’eccessivo calore della pentola lo fonde) o un inquietante giocattolo-cane meccanico mediante il quale il genitore vorrebbe distogliere l’affetto e l’interesse della figlia maggiore nei confronti del cucciolo in carne ed ossa (ma la bimbetta si rivela più saggia del padre).
Ma in fondo la piccola Nansal di ritorno ai suoi monti dopo l’esperienza in città, sembra una parente di Heidi, Kiki o altre protagoniste bambine di Hayao Miyazaki, alla cui poetica vena autoriale e sensibilità “pittorica” la Davaa si avvicina molto.
Tutto il discorso dell’autrice mongola si muove entro i poli di forma e sostanza delle cose: come nell’efficace finale, in cui si “levano le tende” e si mostra in maniera immediata come la casa si fonda non sulle pareti provvisorie che la isolano dal mondo (anche perché la vita dei Batchuluun si svolge per lo più all’aperto), ma su chi la abita. Come avviene anche per il gioco che impegna le due sorelline, e con loro tutti i bambini del mondo, di indovinare quale animale si nasconde nelle mutevoli sembianze delle nuvole: la regista con fa che suggerirci di distinguere sempre fra contenuto e vuoti contenitori (lo stesso corpo, umano o animale che sia). In fondo neppure i bambini sono quei fragilissimi esserini di cristallo che noi occidentali riteniamo: anche se cadono, non si rompono mica (ma questo ce l’aveva già insegnato Truffaut).
Deturpa irrimediabilmente questo delizioso acquerello orientale il doppiaggio italiano: imperscrutabile in particolar modo, quell’”evvai!” messo in bocca alla piccola Nansal, come se ci trovassimo di fronte a una figlia delle borgate romane... Pazzesco doppiare film del genere comunque.
Divertente infine la notazione sulle consultazioni politiche appena tenutesi nel Paese. “Come sono andate le elezioni?” vuol sapere la moglie del pastore al ritorno di quest’ultimo dalla città. “Dicono che le devono rifare!” “Come mai?!” domanda incredula la donna. “Ah, non lo so... questioni loro!” liquida la faccenda il marito... Il sorriso si diffonde rapido sui volti degli spettatori in sala: in fondo tutto il mondo è paese... o forse, qualcuno lo è più di altri. Come l’arretrata e “distante” Mongolia e la nostra Italietta...
(Die Höhle des gelben Hundes) Regia: Byambasuren Davaa; soggetto: dal racconto di Gantuya Lhagva; sceneggiatura: Byambasuren Davaa; fotografia: Daniel Schonauer; montaggio: Sarah Clara Weber; musiche: Borte; interpreti: Nansal Batchuluun (figlia maggiore), Buyandulam Daramdadi Batchuluun (madre), Urjindorj Batchuluun (padre), Nansalmaa Batchuluun (figlia minore), Batbayar Batchuluun (figlio); produzione: SCHESCH FILMPRODUKTION; distribuzione: BIM; origine: Germania 2005; durata: 93’ web info: sito ufficiale
