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Il castello nel cielo

Pubblicato il 26 aprile 2012 da Alessandro Izzi
VOTO:


Il castello nel cielo

Il valore di un film lo si misura anche in relazione al contesto che lo vede nascere. Che sia frutto di una moda passeggera o opera d’arte destinata a restare qualche decade in più nella memoria, la pellicola (termine sempre più sfuggente, ambiguo, destinato ai glossari dei termini desueti) è opera che mangia al tavolo della collettività, sedimenta nel sentimento comune e vien fatta decantare nel tempo che scorre intorno al semplice atto della visione in sala.
La prima proiezione è buona per la critica spiccia, di stampo giornalistico, quella che alimenta l’illusione sommamente amata dagli uffici stampa e dal pubblico internetauta, che il lavoro del commentatore sia semplicemente quello di dire se un film è bello o è brutto e di farlo, appunto, ad un passo dall’uscita. Quando il tempo passa, il discorso va allo storico che affila qualche bisturi in più per sezionare le emozioni di una proiezione pubblica sempre più distante.
Il critico ragiona, infatti, a caldo, sul contesto, sul momento che nasce e che muore. Prende spesso lucciole per lanterne, qualche volta crede che è oro quel che luccica nella corrente delle uscite, ma resta sempre col film di cui parla: nel momento che muore. Lo storico ha una sguardo più dall’alto, ragiona su contesti freddi, su colate di lava già rapprese in roccia. Ha dalla sua, l’archeologo del triacetato, un contatore geiger che serve per datare e che crea distanza col suo ticchettare d’orologio.
Ora, per valutare Laputa (in Italia prendiamo il titolo inglese e internazionale Il castello del cielo) cosa serve? Il critico del momento o lo storico dell’eterno presente? Il film, sul mercato delle bancarelle dell’usato è nuovo, ma nel concreto ha quasi trent’anni. La luce dei proiettori del resto del mondo s’è colorata ai suoi fotogrammi nel 1986 ed in America, ad esempio, dove uscì in ritardo (ben tre anni dopo, ma sempre venti prima che qua) è oggetto d’antiquariato. Le pizze che lo compongono nel nostro ridente paese e che son nuove e immacolate, con le code ancora tutte attaccate, lì son vecchie e piene di polvere solo se son sopravvissute al macero.
Fa ridere vedere sui manifesti che ne accompagnano l’uscita come fosse cosa nuova: “Dal creatore di Il castello errante di Howl e di Ponyo sulla scogliera” quando in Inghilterra magari è potuto succedere il contrario e cioè che sul manifesto di Howl si dicesse “dall’autore di Laputa”.
In realtà noi ci ribecchiamo probabilmente l’onda smorta, allungata dalla re-realise americana del 2003 e possiamo consolarci del fatto che se Atene piange, Sparta non ride visto che la Francia l’ha fatto uscire nello stesso 2003, ma a Gennaio, appena qualche mese prima della nuova premiere americana. Ma chi di noi non ha saputo aspettare, ha potuto contare sui mille DVD nel frattempo usciti in Europa (la Polonia ce l’ha già dal 2007 e probabilmente sarà anche uscito fuori catalogo).
Qual è dunque il contesto di Laputa di cui deve tener debitamente conto il critico che ragiona a botta calda? Quello del bambino che oggi vede il film in sala, o quello del cinefilo che, magari, il film l’ha visto in qualche retrospettiva bella dedicata al cinema d’animazione nipponico, magari una ventina d’anni fa?
E come deve ragionare? In senso storico, col pennellino della polvere? O da pischello sprovveduto, con gli occhi freschi e quel grado zero della memoria che la televisione tanto brama per noi tutti?
Diciamoci la verità, quella che non si legge sulle critiche fresche di stampa di ieri e di oggi: Laputa è datato! Splendido come un ottantenne che non mostra le sue rughe, ma che parla ad un pubblico diverso da quello di Ponyo. Si rivolge(va) ad un pubblico meno smaliziato, più pronto a stupirsi di tante cose. Un pubblico per cui un viaggio poteva essere ancora un’avventura da raccontare al fuoco dei falò e non a quello di oggi per cui suona strano il solo stare a casa un pomeriggio. Un pubblico per cui le preoccupazioni per uno sviluppo industriale non sostenuto da un vero progresso aveva un senso forte, laddove oggi si raccolgono solo i rifiuti che quel momento s’è lasciato dietro. Se ieri, infatti, Miyazaki aveva paura delle esplosioni, oggi lo spaventano di più le lattine lasciate a crogiolarsi indolenti nella marea, pronte a non decomporsi per i prossimi mill’anni. La paura stessa della guerra resta uguale, ma in Laputa ansima nel futuro, laddove in Howl riempie d’incubi un passato di mito.
Dire dallo stesso regista di Ponyo è la più brutta delle bugie, perché in Laputa il regista parla giovane ad un pubblico coetaneo, mentre nella avventure buffe della pesciolina è diventato un nonno che parla ai nipotini. La mezza età l’ha scoperta e l’ha cantata già in Howl.
Beninteso che esca finalmente in sala è una gran cosa perché il film ha uno splendore figurativo che ancora oggi abbaglia e che trova il suo posto bello ancora nelle proiezioni in pellicola, prima del freddo inverno digitale. Farlo uscire tra qualche anno solo il copie per l’hard disk sarebbe stato un delitto ancor più grande.
Ma non mettete, per favore, sulle locandine “dall’autore di Ponyo sulla scogliera”. Mettete piuttosto un più onesto “Dagli stessi distributori che non avevano capito che era un capolavoro trent’anni fa”. E che ora, aggiungiamo noi, sperano di raschiare il fondo della botte del successo artistico e commerciale, addirittura, di La città incantata.


CAST & CREDITS

(Tenkuu no Shiro Laputa); Regia: Hayao Miyazaki; montaggio: Yoshihiro Kasahara, Takeshi Seyama, Hayao Miyazaki; musica: Joe Hisaishi; produzione: Studio Ghibli, Tokuma Shoten; distribuzione: Lucky Red (distribuzione cinematografica); origine: Giappone 1986; durata: 124’


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