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Il codice Da Vinci

Pubblicato il 30 maggio 2006 da Alessandro Izzi


Il codice Da Vinci

L’immagine e la sua interpretazione sono la base del discorso, sotto molti aspetti quasi suicida, portato avanti nell’ultima fatica di Ron Howard. L’ambiguità semantica dell’immaginario, l’infinta possibilità di manipolare e reinterpretare indefinitamente i significati impliciti in qualsiasi espressione iconografica sono, infatti, il punto di partenza della complessa e non proprio originalissima idea di fondo del romanzo di Dan Brown da cui il regista americano trae ispirazione. Ma sono anche il centro di una millenaria polemica insita nella stessa chiesa cattolica che da sempre, fin dai tempi dei primi concili, si è divisa tra le ragioni dell’iconofilia più sentita (quella che poi genererà i santini devozionali di cui è ormai tristemente piena la nostra quotidianità) e le ragioni di un’iconoclastia rigorosa che trae origini dall’assoluto rifiuto di porre in immagine i simboli religiosi tipica delle radici ebraiche della cultura cristiana.
Un’immagine può sempre voler dire tutto e il contrario di tutto, può contenere in sé i germi ineffabili dello spirito divino, ma anche i semi altrettanto imprescindibili del male più assoluto. L’interpretazione dei simboli iconografici si muove, quindi, su un terreno infido e decisamente sdrucciolevole che può dare adito a scuole di pensiero spesso incredibilmente distanti l’una dell’altra ed infinitamente inconciliabili.
Su queste basi sfuggenti diventa ovvia la possibilità di creare incredibili paradossi logici, complessi giochi enigmistici che non vanno da nessuna parte per la sola ed ovvia ragione che possono andare ovunque.
Il film, per questo, che ha, rispetto alla pagina scritta almeno la possibilità di lavorare concretamente sull’immagine e sulla sua manipolazione senza doversi portare dietro il filtro ingombrante della parola che quelle immagini può soltanto evocare faticosamente, è, quindi, niente più di un gioco logico di reinterpretazione immaginifica di cose che altrimenti sembrerebbero infinitamente scontate.
In quanto meccanismo apertamente ludico il film, come pure il romanzo, contiene dentro di sé la sua stessa negazione: porta lo spettatore in una precisa direzione, ma si preoccupa, ad ogni piè sospinto di non fargli dimenticare che quello che sta esperendo è soltanto una delle infinite possibilità interpretative che l’uomo può trarre da quella selva di significati che si possono rintracciare nella babele dei simboli.
Stupiscono (ma non poi più di tanto) le reazioni della Chiesa ai significati del libro e, più ancora del film, perché la Chiesa è sempre stata, fin dai suoi esordi, sempre del tutto contraria a tutto ciò che pone l’Uomo di fronte all’assoluta interpretabilità del Creato. In quanto depositaria di un Sapere assoluto, di una Verità Ultima, la Chiesa non ha mai tollerato punti di vista ulteriori.
E poco importa che questi punti di vista siano portati avanti per puro amore di logica e senza nessun reale aggancio con il contingente, perchè qualsiasi cosa non sia strettamente legata alla sua interpretazione del Libro va automaticamente bandita e messa al rogo.
A vedere, comunque, un film come Il codice Da Vinci senza portarsi dietro gli occhi ottenebrati dall’anatema ecclesiastico ci si accorge ben presto che esso contiene al tempo stesso il veleno e il suo antidoto, annuncia verità epocali sulla Chiesa, ma le denuncia costantemente come frutto di una mistificazione segreta. L’opera di Ron Howard è un immenso falso d’autore che gioca con l’infinita interpretabilità delle immagini come un ragazzino in un negozio di figurine. Mescola periodi storici e flash-back personali in un discorso sulla necessità di comprendere il proprio passato personale e collettivo che è più detto che realmente dimostrato. Gioca con i capricci della percezione e con i misteri dell’interpretazione con una facilità spesso disarmante, ma che, alla fine, sembra non portare da nessuna parte.
Ma il suo problema più grande, alla fine, è proprio che non gioca abbastanza. Troppo spesso nel corso di una proiezione che inanella periodi storici diversi e che mette in immagini il fasto dell’antico come in un film muto titanico, ma casareccio, si ha l’impressione che il film dimentichi di essere fatto a sua volta di immagini anch’esse replicabili e reinterpretabili. Manca, sovente, quell’autoironia che dovrebbe rendere davvero parossistico il discorso di fondo implicito nelle pagine del libro.
Ma manca, altresì, quel senso di tragedia che dovrebbe essere parte integrante di un discorso sull’impossibilità di comunicare una qualche verità in immagini.
Divisa tra due sponde, la pellicola di Ron Howard non è di casa da nessuna parte e gira a vuoto portandosi dietro nel suo stato confusionale anche gli attori (raramente Tom Hanks è parso così fuori parte e Ian McKellen così tristemente manierato).
Un film furbetto, insomma, che fiuta lo spirito del tempo, che sfrutta un’aura scandalistica prodotta ad Arte e che si chiude in un’aurea mediocrità scivolando pigramente sulle più belle, ambigue ed infinitamente interpretabili immagini dell’Arte occidentale.

(The Da Vinci Code); Regia: Ron Howard; sceneggiatura: Akiva Goldsman; fotografia: Salvatore Totino; montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley; musica: Hans Zimmer; interpreti: Tom Hanks (Robert Langdon), Audrey Tautou (Sophie Neveu), Jean Reno (Bezu Fache), Ian McKellen (Sir Leigh Teabing), Alfred Molina (Vescovo Aringarosa), Jürgen Prochnow (André Vernet), Paul Bettany (Silas), Etienne Chicot (Tenente Collet); produzione: John Calley, Brian Grazer; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: USA, 2006; durata: 143’; web info: Sito italiano

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