Il colore della libertà

Raccontare la storia al cinema non è mai semplice. Se la storia, poi, è quella di un grande uomo, la situazione si complica ulteriormente. Il colore della libertà (altro titolo la cui traduzione italiana è inadeguata, l’originale è Goodbye Bafana) racconta trent’anni del Sud Africa dell’Apartheid. L’arco temporale coperto dal nuovo film di Billie August va dal 1968 al 1990, una data probabilmente tra le più significative nell’evoluzione politica del paese africano: l’anno della scarcerazione di Nelson Mandela.
Nel 1968, venticinque milioni di neri sono governati da quattro milioni di bianchi e nel corso degli anni si intensificano le lotte e gli scontri armati fra le due fazioni, il governo del Partito Nazionalista contro l’African National Congress. Il punto di vista, però, non è quello convenzionale dei combattenti dell’una o dell’altra parte, bensì quello di un giovane secondino (James Gregory), incaricato di sorvegliare l’ingombrante (fisicamente e metaforicamente) detenuto Mandela e i suoi compagni sovversivi, in quanto capace di comprendere la loro lingua indigena, la lingua Xhosa. Gregory, decisamente a favore della segregazione razziale, resta affascinato dalla forte personalità del leader del movimento antirazzista; l’incontro con Mandela cambierà la sua vita.
August prende spunto dalle memorie del carceriere di Nelson Mandela e guida lo spettatore attraverso un percorso umano prima che politico. La resistenza dei neri nel Sudafrica, la lotta armata e gli stravolgimenti politici sono solo marginali rispetto al fascino della conoscenza che suscita Mandela nell’animo di Gregory. La presa di coscienza che non tutto è come sembra, nella politica, negli ideali, nella vita di ogni giorno, passa attraverso dialoghi scarni e intensi, atti di insospettata umanità e, soprattutto, attraverso gli sguardi tra i due protagonisti. Sguardi che si incrociano per ben 27 anni, la durata della prigionia del leader sudafricano.
Tutto questo tempo, scandito dalle didascalie che indicano la cronologia degli eventi, sembra trascorrere in maniera differente all’interno e all’esterno delle prigioni in cui Gregory e Mandela si incontrano. Mentre fuori dalle mura carcerarie il paese impazzisce e si susseguono attentati e rappresaglie, all’interno tutto sembra si dilati e si rilassi. Le riprese degli esterni sono sempre frenetiche, spezzettate, molto adatte a rappresentare il clima che si respirava nelle strade delle città sudafricane in quegli anni. Di contro, il cortile della prigione, i corridoi, le celle, sono come sfiorati dallo sguardo della macchina da presa, quasi intimorita nell’avvicinarsi a un luogo in cui c’è un personaggio tanto determinato quanto sereno (e che Tennis Haysbert interpreta in maniera perfetta).
La pellicola di August ha il pregio di non diventare la semplice biografia di un grande uomo, ma di mostrare il percorso che questi ha saputo far compiere al suo popolo. Un’opera che non ha punti deboli, soprattutto per quel che riguarda le interpretazioni degli attori e che racconta la storia senza mai diventare banale.
(Goodbye Bafana) Regia: Billie August; soggetto: tratto da Memorie del carceriere di Nelson Mandela; sceneggiatura: Greg Latter, Billie August; fotografia: Robert Fraisse; montaggio: Hervé Schneid; musiche: Dario Marianelli; scenografia: Tom Hanna; costumi: Diana Cilliers; interpreti: Joseph Finnies (James Gregory), tennis Haysbert (Nelson Mandela); produzione: Istituto Luce e Fonema; distribuzione: Istituto Luce; origine: Germania/Belgio/Francia/Italia/Sudafrica 2007; durata: 117’; web info: sito ufficiale
