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Il corriere – The Mule

Pubblicato il 7 febbraio 2019 da Marco Di Cesare
VOTO:


Il corriere – The Mule

Molti anni fa, nel 2007, scrivemmo un lungo articolo che passava in rassegna il tema della figura paterna che sempre più, assieme all’avanzare dell’età del suo autore, affiorava all’interno della filmografia di Clint Eastwood: ’(De)gradazioni della figura paterna nelle opere di Clint Eastwood’ è il suo titolo. Pezzo che si concludeva quando il maestro californiano non aveva ancora realizzato né Changeling (opera su una maternità che può essere considerata complicata; protagonista un’attrice la cui biografia è conosciuta anche per il suo ruolo di madre, oltre che per i suoi problemi di figlia) né soprattutto Gran Torino, attraverso il quale questo grande uomo di cinema poneva fine – perlomeno secondo le sbandierate intenzioni del tempo – alla propria carriera al medesimo tempo dietro e davanti la macchina da presa, concludendo il suo lavoro di attore (o regista, se preferite) che dirige se stesso, impersonando il ruolo di un uomo deluso dalla vita, da sé a dai suoi Stati Uniti, che trova una nuova ragione di esistenza diventando il padre putativo di un giovane americano, non bianco e cresciuto nel medesimo quartiere alla periferia di una Detroit dismessa tra recessione e lunghe crisi industriali, dove sopravvivere può diventare complicato, tra operai, pensionati, gente umile, immigrati di prima generazione, disoccupati e bande di criminali.

Dopo di allora solamente pellicole che, a nostro personalissimo parere, non rendevano giustizia alla fama e alla bravura del loro autore. Film nei quali affioravano quelli che i detrattori di Eastwood consideravano i difetti congeniti al suo modo di fare cinema: dalle sceneggiature (giova ricordare, mai scritte da lui) e talune loro banalità, fino alle scelte di messa in scena, al tono e allo stile. Difetti – o particolarità stilistiche se preferite - che peraltro nei migliori episodi eastwoodiani erano stati tenuti a bada dall’impianto generale delle opere in questione, da un equilibrio tra pathos e distanziamento emotivo, tra pesantezza del vivere e leggerezza della messa in scena, malinconia ed ironia, temi scottanti e attenzione a un umanesimo di stampo esistenzialista.

E non tanto, e non solo forse, perché i critici cinematografici sono spesso particolarmente innamorati delle proprie idee, ma personalmente ci sentiamo di sottolineare come questo ritorno, sia dietro la macchina da presa come regista che davanti come protagonista sullo schermo, coincidendo con un ritorno a un discorso legato alla paternità e alla famiglia, segni per il cineasta nato a San Francisco il 31 maggio del 1930 un lavoro finalmente convincente, come non accadeva da troppo tempo. Come se Il corriere – The Mule, tratto dalla storia di un novantenne americano che, finito sul lastrico, accetta, prima inconsapevolmente e poi colpevolmente, in seguito alla pioggia di dollari che lo investirà, di trasportare chili e chili di cocaina al soldo di un cartello messicano, diventando anzi il migliore dei muli per i suoi datori di lavoro, fosse fatto per riavere indietro il Clint Eastwood uno e bino, coi due lati della macchina da presa di nuovo pronti a rafforzarsi a vicenda, dopo che l’anziano maestro ci aveva fatto temere di avere oramai irrimediabilmente perso la mano.E, al pari del suo personaggio (Earl Stone), il quale, sia per necessità che per seguire il proprio carattere, sarà disposto, nonostante l’età avanzata, a sperimentare nuove strade, così Eastwood continua ad approfondire il suo personale discorso di decostruzione della figura dell’eroe hollywoodiano, lui da sempre interprete di antieroi, restituiti nelle loro varie sfaccettature: dal cinico uomo senza nome della leoniana Trilogia del dollaro al duro, violento, burbero e solitario ispettore Callaghan, fino alla ironica rilettura di decenni di suoi personaggi attraverso il sacrificio dell’anziano suicida Walt Kowalski. E fino ancora al quasi novantenne Earl Stone, sul quale da più parti piovono parole che sottolinenano una certa sua somiglianza con James Stewart: un simbolo non solo, quest’ultimo, dell’epoca d’oro di Hollywood, negli anni del classicismo cinematografico americano; quanto anche interprete di uomini comuni che, vittime di complotti, vengono coinvolti in affari più grandi di loro (da Mr. Smith va a Washington o anche La vita è meravigliosa di Frank Capra a L’uomo che sapeva troppa e La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock). Continua quindi, Eastwood, a percorrere la strada di una ironica, oltre che pragmaticamente teorica, rilettura del passato, delle figure dei Padri fondatori degli Stati Uniti e dell’immaginario e della mitologia di quel Paese, mescolando tra loro i generi cinematografici, cesellandoli, e confermando il postclassicismo della sua poetica. Poetica che è anche politica: non solamente per quanto riguarda i suoi protagonisti, alfieri del politicamente scorretto, liberi parlatori all’interno di una società addomesticata; quanto proprio nei riguardi di un discorso più ampio, che coinvolge l’intera società americana, in Il corriere esplicitata attraverso episodi che accennano all’esistenza delle cosiddette minoranze (per esempio quelli inerenti lesbiche, neri e ispanoamericani), le loro cosiddette diversità (qui sottolineate quelle più evidentemente fisiche) e il rischio che si corre in quel Paese di imbattersi nelle violenze della polizia locale, attraverso brevi sketch che costellano il tragitto di Stone nei suoi vari viaggi in auto, accompagnato da borse piene di cocaina.

È però un road movie atipico, The Mule. A cominciare dallo spunto narrativo che, assieme all’età avanzata del personaggio protagonista, segna un film dove a dominare è la lentezza e la costanza della guida di Stone, il quale, per dare ancora meno nell’occhio, rispetta qualsiasi aspetto del codice della strada. Ma ciò non vieta al maturo corriere, figlio di un’epoca dove non esisteva l’odierna tecnologia, di prendere iniziativa di sua spontanea volontà, infischiandosene anche dei dettami del cartello di appartenenza, operando continue deviazioni rispetto alla strada tracciata per lui dai narcotrafficanti. Come in Sully quindi (anche questo tratto da una storia vera) assume preponderanza l’elemento umano: l’imprevedibilità delle scelte individuali poste di fronte al rispetto o no di insegnamenti redatti da altri. E si entra perciò nuovamente nei campi della morale e dell’etica: ambiti prediletti della ricerca artistica di Eastwood.
Road movie atipico, The Mule, perché mette in scena continui viaggi andata/ritorno che il regista restituisce mediante sequenze non particolarmente lunghe, sottolineando quindi la ripetitività dell’azione sullo schermo. Soprattutto viene sottolineato un rapporto tra interno ed esterno: non solo l’esistenza, il viaggio, dentro l’abitacolo e quanto avviene fuori di esso, al di là del finestrino; quanto la corrispondenza tra l’esteriorità di Stone, la sua immagine, il suo egocentrismo di stampo narcisistico in mezzo alla società contrapposta alla sua sfera più privata, alla famiglia il cui amore ha perso da tempo a causa delle sue disattenzioni. Ciò, il passato, ai quali errori Earl tenta di riparare grazie ai tanti soldi che ora sta guadagnando, proiettandosi sul suo presente, allungando la propria ombra fin dentro la solitudine che lui vive dentro l’abitacolo del suo pick-up, dando vita a una crisi di coscienza nell’uomo. Oltre che a una crescita esistenziale: come in ogni road movie che si rispetti.

Il corriere ci mostra un auteur che, passo dopo passo, continua ad aggiungere qualcosa non soltanto alla propria filmografia, quanto al suo discorso artistico, alla sua visione del mondo, tra riproposte e approfondimenti. Avendo deciso di ripresentarsi da entrambi i lati della macchina da presa, proponendo una nuova lettura di se stesso, in quanto incarnazione del divismo; lui però mostrando nuovamente sullo schermo la propria età, sempre più avanzata: continuando pertanto a lavorare sull’essenza dello star system e quindi, essendo Hollywood il Vaso di Pandora che contiene e ripropone le immagini dell’immaginario americano, spargendole poi su gran parte del mondo, sottolinea Eastwood la problematicità di tale luccicante superficie, all’interno della quale si specchiano gli Stati Uniti, il cui presente è propaggine del passato e dei suoi Padri fondatori. Tutti aspetti degni di essere messi in discussione e che il cineasta californiano è tornato ad affrontare in maniera artisticamente degna, continuando a sviscerare il tema della paternità, assieme a tutto quello che intorno a questa ruota.


CAST & CREDITS

(The Mule); Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Nick Schenk (ispirata all’articolo ’The Sinaloa Cartel’s 90-Year Old Drug Mule’ scritto da Sam Dolnick e pubblicato dal New York Times Magazine); fotografia: Yves Bélanger; montaggio: Joel Cox; musica: Arturo Sandoval; interpreti: Clint Eastwood (Earl Stone), Bradley Cooper (Agente Colin Bates), Dianne Wiest (Mary), Taissa Farmiga (Ginny), Ignacio Serricchio (Julio), Michael Peña (Agente Treviño), Laurence Fishburne (Agente speciale capo), Andy Garcia (Laton), Alison Eastwood (Iris); produzione: Warner Bros., Malpaso Productions, Imperative Entertainment, Bron Creative; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: USA, 2018; durata: 116’; web info: sito ufficiale.


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