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Il curioso caso di Benjamin Button

Pubblicato il 15 febbraio 2009 da Gaetano Maiorino


Il curioso caso di Benjamin Button

In una stanza di un ospedale di New Orleans, Daisy, in punto di morte, chiede a sua figlia Caroline di leggerle un vecchio diario. Eric Roth usa questo semplice espediente narrativo per far dare il la al lunghissimo flashback che racconterà la storia di un uomo “nato in circostanze singolari”, Benjamin Button.
L’ispirazione viene da un racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922, sfruttata dallo sceneggiatore di Forrest Gump e dei più recenti Munich e The Good Sheperd, per ricostruire quasi un secolo di storia attorno al suo protagonista, un uomo che, nato vecchio, percorre la sua vita al contrario, fino a morire da neonato.
Preludio al film vero e proprio, in cui vediamo Brad Pitt, progressivamente ringiovanire grazie alla tecnologia digitale, sono una serie di metafore che suggeriscono diverse interpretazioni di questa pellicola tanto attesa e tanto celebrata dall’Academy (sono dieci le nomination per gli Oscar).
La prima di esse è mediata da un racconto di Daisy: un orologiaio cieco, sconvolto dalla morte del figlio avvenuta in guerra, costruisce per la hall della stazione della sua città un orologio che va al contrario, per non dimenticare il dolore subito e per riportare idealmente indietro il tempo e riavere così tutti i giovani morti sul campo di battaglia. Lo scorrere del tempo in senso inverso, allegoria portante di tutta la narrazione, è così introdotto. Si incarnerà letteralmente nel corpo del protagonista, ma si ripercuoterà anche su tutti coloro che gli saranno vicino e sui loro comportamenti durante il film.
In seguito Caroline comincia la lettura per soddisfare l’ultimo desiderio di sua madre, mentre all’esterno lentamente si avvicina l’uragano Katrina, tragedia del nuovo millennio per la storia americana (seconda probabilmente solo all’11 settembre), cornice costante per tutto il film. Il vento e la tempesta che si abbattono sulla città di New Orleans, sconvolgono l’esistenza di una comunità così come l’uragano contenuto nelle pagine del diario di Benjamin stravolge la vita di Caroline, che scoprirà quanto quell’uomo, passato soltanto per un breve momento davanti ai suoi occhi, sia stato in realtà una figura fondamentale per la sua vita.
Dopo il lungo prologo, si incontra finalmente Benjamin, orrendo neonato, venuto al mondo il giorno della fine del primo conflitto mondiale nel 1918. Appena adolescente, il giovane/vecchio Benjamin si regge in piedi a fatica un po’ come l’America della grande depressione che fa da contorno ai suoi 11 anni. Sedia a rotelle, stampelle, tanta voglia di esplorare il mondo, di crescere e di spiccare il volo. L’anziano ragazzo è il ritratto dell’America, messa al tappeto un decennio dopo la grande guerra, che cerca di risollevare la testa e di riprendere a correre. Cadendo, inciampando, con l’entusiasmo necessario per riprendere a vivere e la convinzione che non sarà un percorso semplice da completare.
Si tratta solo degli esempi più evidenti del possibile significato secondo che si può trovare dietro la vicenda di Benjamin. Esempi che portano a pensare che questo interminabile racconto di vita possa essere un discorso filosofico sul saper aspettare il momento giusto per individuare il proprio percorso, sulla fugacità della felicità e sulla necessità di costruire legami solidi fondati su sentimenti profondi. E in effetti il film, oltre a soffermarsi per pochi momenti anche sul coraggio necessario a un uomo per diventare padre (argomento solo abbozzato), non suggerisce molto altro.
Ma in realtà il grande tema su cui Roth costruisce tutta la sua sceneggiatura è l’amore, quello impossibile e contrastato, come nel più classico dei melodrammi. Il fato come primario antagonista, il tempo come strumento del destino per allontanare i due innamorati. Benjamin e Daisy si inseguono, si guardano in un continuo gioco di campi e controcampi anche quando si trovano lontani, in due punti diversi del mondo, con terre e oceani a dividerli. Per pochi anni possono ingannare lo scorrere dei giorni, beffare chronos e vivere la loro storia d’amore.

L’ultimo lavoro di David Fincher è probabilmente il primo esempio di melodramma in grande stile che Hollywood produce nel nuovo millennio, coniugando il genere con le rivoluzionarie capacità tecniche che il digitale e la computer grafica mettono a disposizione (l’elenco di coloro che hanno lavorato nel reparto di visual e computer effects è sterminato). In fondo ci si poteva aspettare una tale maniacale attenzione per il dettaglio grafico/computerizzato da parte di un regista come Fincher. Ed è probabilmente solo tramite l’analisi del lavoro sull’immagine digitale che si può infine parlare del ruolo del regista in questo film, trascurato finora da questa analisi a favore di un discorso sulla scrittura e dei contenuti e quindi sulla elaborazione del testo di Fitzgerald fatta da Eric Roth.
Maniaco del digitale, fedele adepto della setta di coloro che vedono in questa nuova tecnologia il futuro del cinema, Fincher sperimenta la possibilità di giocare coi volti dei propri attori, di ricostruire sul corpo di un vecchio signore il fascino di Brad Pitt, affidandosi principalmente agli occhi azzurri dell’attore, brillanti e quasi inverosimili in ogni primo piano. _ Ma se lo spunto di partenza è affascinante, non tutto gira come dovrebbe. L’approfondimento di caratteri problematici e borderline come i protagonisti di Fight Club, l’iper-violenza che spezza le convenzioni di genere che è ha fatto il successo di Seven, l’ossessione che logora l’uomo in Zodiac, l’ambiguità e il continuo buio visivo e esistenziale presente in tutte le pellicole del regista (anche nel più convenzionale The Game, comunque un film più che riuscito), sono stati elementi che hanno fatto di Fincher un autore di elevata caratura tecnica e artistica. Di tutto il suo lavoro precedente non c’è traccia in questo suo ultimo film. L’amore idealizzato, il facile sentimentalismo, la prevedibilità delle dinamiche tra i personaggi e soprattutto la luce, scintillante al limite della falsità che si sprigiona in ogni inquadratura non sono assolutamente nelle corde di questo regista, che si limita a inquadrature banali quasi timido nell’affrontare un (per lui) nuovo genere con un testo così convenzionale nonostante le apparenze. Con il rispetto che si deve a un grande artista, bisogna onestamente affermare che probabilmente Fincher non era il regista per questo film.
Fallisce il suo tentativo di cambiare il proprio modo di affrontare una storia per affrontare la storia. Benjamin Button pare avere la pretesa di essere quello che con un’espressione abusata si può definire un affresco della storia americana, un cammino progressivo attraverso eventi clamorosi (un po’ meno, ma un po’ come in Forrest Gump) che hanno avuto luogo negli ottanta anni di vita di un personaggio particolare elevato a testimone di una generazione. Un testimone che cammina bizzarramente all’indietro, ma che non racconta in fondo, niente di particolarmente nuovo o interessante.


CAST & CREDITS

(The curious case of Benjamin Button); Regia: David Fincher; sceneggiatura: Eric Roth; fotografia: Claudio Miranda; montaggio: Kirk Baxter; musica: Alexandra Desplat; interpreti: Brad Pitt (Benjamin Button), Cate Blanchett (Daisy), Taraji P. Henson (Queenie), Julia Ormond (Caroline); produzione: Warner Bros. Pictures, Paramount Pictures; distribuzione: Warner Bros. Italia; origine: USA 2009; durata: 143’.


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