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Il curioso caso di David Fincher

Pubblicato il 10 marzo 2009 da Simone Spoladori


Il curioso caso di David Fincher

Il grande sconfitto della notte degli Oscar è indubbiamente Il curioso caso di Benjamin Button. Partito con 13 nomination e i favori del pronostico, è stato sbaragliato da The Millionaire di Danny Boyle, portando a casa solo qualche briciola, riconoscimenti complessivamente minori che ne premiano lo sbalorditivo comparto tecnico. Oscar a parte, Benjamin Button è certamente un film deludente, i cui limiti maggiori aprono però la strada ad una serie di importanti riflessioni sul complesso dell’opera di David Fincher. Sceneggiato da Eric Roth (Forrest Gump, The Insider, Munich) a partire da un racconto di Francis S. Fitzgerald, l’ultimo film del regista di Fight Club è un’esperienza complessivamente frustrante perché piatto e ingessato, privo di stile e di personalità per tutta la sua interminabile durata, come se la poderosa macchina hollywoodiana che lo sorregge avesse in qualche modo schiacciato le velleità di Fincher di dare un’effettiva impronta personale al progetto, limitando drammaticamente la potenzialità di quanto preso in prestito da Fitzgerald. Il curioso caso di Benjamin Button, infatti, è film cavo e anodino che non vola mai al di sopra della struttura narrativa che lo caratterizza e della storia che racconta e spinge quindi a chiedersi, rilevata la sconcertante linearità dell’esposizione, se uno “stile Fincher”, in effetti, sia mai esistito, esista, cosa sia, come sia. In altre parole, è forse tempo di chiedersi se Fincher sia in effetti un autore e conseguentemente come vada analizzato il suo cinema, che tipo di spazio debba occupare e con quali strumenti vada indagato. Per rintracciare correttamente le coordinate di questa ricognizione, può essere utile ripercorrere cronologicamente le tappe della carriera del regista di Denver, prestando attenzione anche alle prospettive sincroniche che legano di volta in volta le sue opere e le sue scelte estetiche al concetto di intermedialità e al clima culturale del crepuscolo del postmoderno.

Gli esordi - Da Lucas al videoclip

Dopo una prima fugace esperienza come animatore presso la Korty Films di John Korty, i primi veri contatti di Fincher con il cinema, è noto, avvengono nell’alveo della Industrial Light & Magic di George Lucas, dove il futuro regista di Se7en lavora come assistente agli effetti speciali in film come Indiana Jones e il tempio maledetto, Il ritorno dello Jedi o La storia infinita. In questi anni mette subito la sua creatività al servizio dello stupore, del barocchismo tecnologico, della sperimentazione. L’illusione, quindi, il trucco, la dissoluzione dei limiti tra filimico e profilmico, l’occhio del cinema che penetra oltre i confini del visibile, il pensiero che si fa immagine arricchito dalla potenza del digitale, questa è la scuola di Fincher, che all’esperienza con Lucas affianca, ben presto, una lunghissima attività come regista di videoclip, iniziata nel 1984 con la regia di Bop Til You Drop di Rick Springfield. In breve tempo la foga sperimentale che riversa nel nuovo medium con cui si cimenta lo porta a collaborare con artisti del calibro di Patty Smith, Mark Knopfler, Madonna, Michael Jackson, Rolling Stones, A Perfect Circle, Nine Inch Nails. Della forma narrativa del videoclip, Fincher fa propria l’immediatezza, la rapidità, il senso del ritmo, la capacità di restituire un tono e di tratteggiare un clima emotivo con la forza delle immagini senza servirsi della banda sonora diegetica. Tutti elementi destinati a collidere e a fondersi nel suo cinema, dimostrando come il regista del Colorado, cresciuto però in California, sia un artista ipertroficamente postmoderno, che come una spugna si imbeve delle esperienze in cui si getta, mettendosi in discussione e riproponendone poi, attraverso riformulazioni visive personali, i processi comunicativi peculiari. E’ un primo elemento cui prestare attenzione. Lo stile Fincher, se c’è, è parte di un’autorialità singolare, la cui ricorrenza non è la semplice riproposizione degli stessi elementi, ma piuttosto la reiterazione della discontinuità e la persistenza della trasfigurazione.

Alieni al cubo e cinema pubblicitario

Il 1992 è l’anno di un doppio esordio. Da un lato, il regista americano debutta al cinema dietro la macchina da presa dirigendo il terzo episodio della saga di Alien, destinato a diventare l’episodio meno amato dai fan della saga, ma comunque ricco di spunti d’interesse. Dall’altro lato, Fincher dirige il suo primo spot pubblicitario, The Director, per Chanel, nel quale, nello spazio metacinematografico di un set di un film ambientato negli anni ’40, cupo, notturno, battuto dalla pioggia scrosciante, un regista e la sua attrice flirtano enigmaticamente. Cimentandosi con il medium pubblicitario, Fincher definisce meglio il suo universo poetico e fabbrica i suoi tòpoi: l’acqua che bagna costantemente uno spazio urbano acido e problematico, scenografie espressionistiche ma paradossalmente dominate da linee morbide e sinuose, il senso di claustrofobia, una plumbea percezione di cupezza diffusa e insostenibile. Sotto la patina di uno spot per un profumo cool e a la page, si sente pulsare un cuore inquieto e scuro, lo stesso che rende la prima parte di Alien³ un piccolo gioiello incastonato in una nave votata al naufragio. Sei sceneggiatori si passano di mano lo script, litigano e solo tre saranno accreditati; la sceneggiatura è un pasticcio, nessuno vuol dirigere il film. Fincher accetta, perché da artista visivo contemporaneo è anche imprenditore di se stesso e sa gestire molto bene, con piglio industriale, la propria immagine, dosando i passi della propria carriera. Gira il film con 50 milioni di dollari, ma la sua forte personalità è destinata a scontrarsi con le regole degli studios, che gli impongono di tagliare dalla versione finale circa 40 minuti. Se il risultato non è esaltante, non è certo responsabilità del regista che, anzi, regala al guazzabuglio generato da uno dei soliti ingorghi di potere hollywoodiani una prima ora stupefacente. La rappresentazione del carcere in cui è rinchiusa Ellen Ripley (naturalmente Sigourney Weaver) è sbalorditiva e scuote proprio per il tormentato e inquieto senso di claustrofobia che riesce a trasmettere. A contatto con la possibilità di una forma narrativa più ampia, lo stile-Fincher si carica di questi elementi dark, declinati in una personalissima chiave visionaria e pubblicitaria, nel senso migliore del termine, con molto appeal e la necessità di una confezione up-to-date. E’ con il secondo lungometraggio, comunque, che David Fincher può esprimere pienamente il proprio talento e raggiungere la notorietà.

I sette peccati capitali

Se7en esce nel 1995. Questa volta la sceneggiatura è di ferro ed è scritta da Andrew Kevin Walker, che immagina, in una metropoli imprecisata degli Stati Uniti, un killer che uccide spietatamente le sue vittime seguendo lo “schema” dei sette peccati capitali. Una coppia di detective (Morgan Freeman e Brad Pitt), bianco e nero ma tutt’altro che stereotipati, gli danno la caccia. Insieme al direttore della fotografia Darius Khondji, Fincher frantuma l’immaginario collettivo della città maledetta ed immerge lo spettatore in un incubo metropolitano che non si vedeva al cinema dai tempi della Los Angeles di Blade Runner. Una pioggia fangosa ed incessante che sembra provenire direttamente dall’inferno maledice una città sporca e lorda; una luce sinistra proietta ombre espressionistiche negli inquietanti interni in cui il killer (Kevin Spacey, che qui offre una delle sue migliori prove) giustizia i nuovi peccatori. Fincher, al secondo film, si dimostra già perfettamente in grado di gestire una complessa factory autoriale, riuscendo a far vibrare all’unisono i suoi collaboratori e a dare straordinaria coerenza all’insieme. Si mette a fuoco uno dei tema centrali del suo cinema, la violenza connaturata all’uomo, esplorata non per indagarne le cause e le radici, bensì semplicemente per essere fotografata, ritratta, tratteggiata come una componente ineliminabile del comportamento sociale dell’uomo. Ma questa stessa tendenza aggressiva e quasi cannibalesca non è mai in campo, nonostante oggetto della narrazione siano le gesta di un efferato serial killer che tortura e giustizia. Ne vediamo gli effetti, fisici e soprattutto psicologici, ma l’atto violento non è mai mostrato, come a rispettare un rigore morale non così scontato, privo di compiacimento. In questo mosaico, trovano spazio anche elementi che discendono con evidenza dall’estetica dei videoclip e dei commercial, soprattutto per ciò che concerne il ritmo, certi tagli di luce, l’utilizzo della musica. 
Il cinema di Fincher si apre all’intermedialità mostrando di sè, quindi, un altro volto rappresentativo.

Le regole del gioco

Il successo di Se7en non viene ripetuto dal successivo The Game, del 1997. Fincher si appassiona ad una sceneggiatura non proprio impeccabile di John Brancato e Michael Ferris, che racconta l’illusorietà del cinema attraverso la metafora di un gioco-messinscena cui lo yuppie Michael Douglas deve partecipare, su invito del fratello new age Sean Penn. Mentre le certezze del protagonista si sgretolano, Fincher demolisce anche quelle dello spettatore gestendo straordinariamente la prima parte del racconto, cambiando continuamente le carte in tavola sull’esatta natura di ciò cui stiamo assistendo. Grazie alla fama che si porta dietro da Se7en, può andare a briglia sciolta e giocare per accumulo, abbandonandosi a continui virtuosismi di regia. Il tono è sempre cupo, c’è un fondo di nichilismo, superficiale per vocazione, mentre sul piano visivo il tema che viene ripetuto con fin troppa convinzione è l’illusorietà dello sguardo, la perdita della centralità e delle certezze dell’azione scopica. Un tema fondamentale fino ad oggi, che si somma agli altri e che viene svolto più che per metafore narrative per straordinarie soluzioni visionarie che si insinuano sotto pelle. Peccato, però, che The Game, più per problemi di sceneggiatura che di regia, si inabissi profondamente nel finale. Il regista cerca di tenerlo a galla, accentuando ulteriormente il delirio barocco, finendo per assestare, però, il colpo di grazia al meno memorabile dei suoi film.

Prima regola: non parlare mai del Fight Club

Fight Club di Chuck Palahniuk non è certo un romanzo capolavoro. Una tassonomia di idee forti e buone sul consumismo e la contemporaneità si intrecciano ad un’interminabile serie di banalità, il tutto legato da una scrittura che complessivamente sembra sempre in ritardo, fuori tempo, priva della potenza immaginifica necessaria a far riecheggiare il beffardo grido di protesta che si intravede nel plot. Jim Uhls e David Fincher ne intuiscono il potenziale e ne traggono una sceneggiatura che sul piano narrativo stravolge radicalmente solo il finale del romanzo (lo stesso Palahniuk affermerà di preferire di gran lunga quello del film). Prodotto da John Landis, Fight Club vede la luce nell’estate del 1999, distribuito dalla 20th Century Fox, e solleva un oceano di polemiche (non sufficienti, peraltro, a sostenerlo al botteghino). La vicenda, è noto, è quella di un innominato agente assicurativo, neoyuppie in carriera, in crisi depressiva perché ha l’anima anestetizzata dal consumismo, che si imbatte nel guru new age Tyler Durden, filosofo da strada che teorizza una farneticante ribellione alla società dei consumi che ne utilizzi, però, le stesse distorsioni (aggressività e individualismo, innanzitutto) per demolirla. I due fondano spontaneamente il Fight Club, circolo clandestino dove in pace ed armonia, i frustrati del capitalismo possano sanamente prendersi a mazzate, per ripristinare la propria autenticità interiore. Ovviamente, il delirio è destinato a degenerare fino ad un apocalittico e beffardo finale. Roberto Escobar, su Il Sole 24 Ore, all’indomani dell’uscita del film, apre la sua recensione-stroncatura con una domanda su Fincher: «Grande o grosso? C’è forse una propensione di David Fincher per la volgarità, ossia per la riduzione, la diminuzione, la banalizzazione di temi grandi e alti, allo scopo di adattarli alle bassure e alla grossolanità d’un pubblico sempre più indotto a scambiare l’improntitudine per genialità?». Più che la risposta, è proprio la domanda ad essere cruciale, perché se Fight Club può, anzi deve essere considerato il film chiave del postmoderno, più e meglio di Pulp Fiction, ad esempio, il motivo risiede proprio nell’impeto con cui costringe a porsi quella domanda. Prima ancora di prendere posizione morale sul delirio nazi-nichilista di Tyler Durden, bisogna comprendere quanto esso vada preso sul serio e si prenda sul serio. La prospettiva che Fincher riesce magnificamente ad adottare è, infatti, quella della completa, e totale orizzontalizzazione dell’ottica culturale, tratteggiando una sconfinata landa desolata e desolante in cui citazioni da Dostoevskij o Nietsche si fondono a riflessioni cotte e mangiate sul catalogo Ikea e sulle mutande firmate. Ci è o ci fa? Quanto questo atteggiamento è parte della stessa decadenza che mette in scena e quanto ne è una critica, cinica e beffarda metafora? Lasciando tutto in sospeso, Fincher risolve la questione costruendo, sul piano visivo, un meccanismo sbalorditivo, in cui riversa furiosamente tutto ciò che dall’inizio della sua carriera ha assimilato: zoom morph, profusione di effetti visivi che ci catapultano nell’immaginazione e nella mente distorta dei protagonisti, intreccio narrativo completamente destrutturato e intermittente, continui inganni delle certezze scopiche degli spettatori, ritmo selvaggio da videoclip, sovrimpressioni e scelte esplicitamente “da spot”. E poi i fotogrammi subliminali, che lavorano sull’inconscio di chi fruisce il film seguendo il progressivo inabissamento della psiche del narratore Edward Norton. Un cinema immersivo, che non si rivolge più alla vista come al senso privilegiato, ma costringe ad “inzupparsi” nel coté decadente, marcio, sinistro del film. La città è sempre cupa, disperata e senza nome; i corpi che la percorrono appartengono ad attori che Fincher spinge al loro massimo, sia il dimesso e controllato Edward Norton, sia l’eccessivo e delirate Brad Pitt, sia la dark lady Helena Bonham Carter.

Panico da 11 settembre

Quanti sono i film americani letti attraverso le fobie e i fantasmi generati dall’attentato alle Twin Towers del 2001? Tanti, forse troppi. Indubbiamente, però, tra questi Fincher infila anche il suo Panic Room, uscito tre anni dopo Fight Club, forse non all’altezza del predecessore ma indubbiamente thriller di grande interesse e con qualche sequenza da antologia. Mauro Gervasini, su Film Tv, recensendo il film, ne evidenzia una, quella in cui Jodie Foster, rinchiusa nella sua Panic Room, la stanza di sicurezza nella sua nuovissima casa di New York, vede da un monitor di un circuito interno degli intrusi che stanno entrando nel suo appartamento. Non si agita, però, finché non “sente” il rumore di un oggetto che questi hanno urtato. Come a dirci che l’America devastata dal primo vero attacco sul proprio territorio, ferita da un nemico che non si vede, non si riesce ad identificare, non si mostra, si è definitivamente arresa al postmoderno, e cioè non crede più nel senso della vista. Potente, sebbene non originalissima, pure la metafora della stanza di sicurezza dentro al proprio appartamento che diventa invece il luogo della propria prigione e della mattanza, restituendo il nuovo senso di insicurezza che gli americani provano all’indomani della catastrofe del World Trade Center. Jodie Foster, incinta, è un’ottima protagonista (sostituisce Nicole Kidman dopo 3 settimane di riprese), Kirste Stewart è la figlia malata che si nasconde con lei nella Panic Room, Forest Whitaker, Jared Leto e Dwight Yoakam danno loro la caccia. Buona parte della critica non apprezza, una fetta ancora maggiore, forse, non capisce.

Nel segno dello Zodiaco

Dopo Panic Room, la pausa dura cinque anni. E’ una pausa densa e intensa, in cui il regista di Denver si dedica ai videoclip e agli spot. In realtà, già alla fine del 2005 si mette al lavoro, con lo sceneggiatore James Vanderbilt sul libro di Robert Graysmith a proposito degli omicidi del killer dello Zodiaco, un maniaco omicida seriale che tra gli anni ’60 e i ’70 aveva seminato il panico a San Francisco, una storia che aveva già ispirato Bullit, di Peter Yates, con Steve McQueen e Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo, di Don Siegel con Clint Eastwood. L’idea di Fincher e dello sceneggiatore nasconde però un approccio molto più originale dei predecessori: concentrare la propria attenzione non sui delitti del killer, bensì sulle indagini, con la premessa doverosa, però, che si tratta dell’investigazione più inconcludente e improduttiva della storia della polizia americana. Un uomo solo, il misterioso assassino, per due decenni tiene in scacco polizia e media, annunciando omicidi che non commetterà, rivendicandone altri probabilmente non commessi da lui, compiendone altri ancora senza lasciare tracce, indizi o prove. Gli danno la caccia un detective (Mark Ruffalo), un vignettista (Jake Gyllenhaal) e un reporter (Robert Downey Jr.), tutti ossessionati dalla ricerca della verità, tutti disposti a distruggere la propria vita privata alla ricerca di un’ossessione. Fincher vince la scommessa e realizza un thriller straordinario, lungo ma ma asciutto e mai prolisso, che per due ore e trentasei minuti (tutti necessari) mette lo spettatore nelle stesse condizioni dei protagonisti, li inonda di prove fasulle, li fa girare a vuoto, li porta a riflettere su come spesso la stessa esperienza spettatoriale altro non sia se non un’indagine in cui si tenta di tenere insieme tutti i pezzi di un mosaico, e che talvolta, per tutti, il confine con la paranoia sia labile, sottilissimo. Zodiac pare il negativo, il rovescio di Se7en, che ricopriva di glamour e appeal le pareti dell’apocalisse e sfogiava uno stile fiammeggiante. Perdonato facilmente l’inserto con la città accelerata che separa alcune scene, il penultimo film di Fincher è asciutto, trattenuto, composto. E’ un nuovo Fincher ancora, che si somma agli altri e si inspessisce, che gioca con i generi e le loro regole, che aggiusta lo stile alle necessità, che riflette sul cinema, sul suo ruolo e sul suo significato, che dirige splendidamente uno straordinario terzetto di attori, che porta il suo film in concorso a Cannes. Parte della critica, senza strapparsi i capelli, parla di maturità.

Il curioso caso di un film (quasi del tutto) inspiegabile

Mutatis mutandis, con Zodiac si pensa di aver trovato il Fincher più compiuto. Ci si illude che il percorso sempre cangevole e denso di rivolgimenti del regista di Fight Club sia finalmente approdato ad una situazione definita e stabile, o comunque che la direzione intrapresa sia chiara. Quello che succede con Benjamin Button è inspiegabile, o forse troppo facilmente giustificabile pensando semplicemente allo show business. L’adattamento del racconto di Fitzgerald, Il curioso caso Benjamin Button, è un progetto che Hollywood rimanda dal 1990. Ci hanno provato Spielberg, Ron Howard e Spike Jonze. Tutti hanno abbandonato. Si sono avvicendati produttori e sceneggiatori. Alla fine Eric Roth, che al suo attivo ha solo un grande film e mezzo (non certo Forrest Gump, ma The Insider di Michael Mann e un pezzo di Munich di Spielberg) scrive e Fincher dirige. La carica filosifica del racconto originale si sgretola in due ore e quaranta minuti si stereotipi e immagini convenzionali. Soprattutto, con l’eccezione di pochi lampi (letteralmente, se si pensa ai microflashback dell’anziano che ricorda i fulmini che l’hanno colpito, ricostruiti con ricordi sotto forma di frammenti di cinema delle origini; oppure la sequenza alla Sliding Doors sugli incroci del destino; o tutta la parte in Russia con Tilda Swinton), il film è di una piattezza desolante, senza che mai tutto ciò che, a questo punto, abbiamo fissato come stile-Fincher, si manifesti. Gli scarti intermediali, la riflessione sul cinema, sull’inefficacia dello sguardo, non pervengono, e questo nonostante il soggetto si presti a moltissimi sussulti e riflessioni.
Mentre il pubblico, in tutto il mondo, apprezza e accorre in massa, i Golden Globe prima, gli Oscar poi, inaspettatamente, puniscono un film che sembra fatto apposta per sbancare l’Academy (e che aveva ottenuto ben 13 nomination) e gli preferiscono The Millionaire di Danny Boyle, altro film “ad orologeria”, tutto testa, meravigliosamente finto e poco sincero, ma con una carica ben diversa rispetto al fotoromanzo di Fincher. Il quale, subito dopo il kolossal con Brad Pitt, gira, quasi per sfogarsi, uno spot capolavoro per una compagnia telefonica giapponese, sempre con Pitt. L’attore cammina per le strade di una metropoli che non riconosciamo. Primissimo piano, il carrello lo precede. Sembra esserci vento. L’inquadratura si allarga, capiamo che il vento che spira è il vento dell’apocalisse, perchè la città è in corso di distruzione, macchine che volano, alberi sradicati. Pitt cammina, indifferente, parlando al cellulare. C’è più Fincher, il miglior Fincher, in questi trenta secondi che in tutto il Benjamin Button. Per il 2010 Fincher ha annunciato che girerà Heavy Metal, remake di un film d’animazione del 1981 diretto da Gerald Potterton. Si tratterà, pare, di una serie di storie brevi ispirate ad uno dei film culto degli anni ’80, ciascuna diretta da un regista diverso (Gore Verbinsky e Zack Snyder, tra gli altri), supervisionate dallo stesso Fincher. La Paramonut ha rifiutato il progetto e ha scaricato Fincher. Chissà che, come per Benjamin Button, non sia un avvertimento del destino.


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