Il discorso del re

Nel 1936, Edoardo VIII, succeduto al padre Re Giorgio V, rinunciò ai diritti regali per sposare Wallis Simpson, la regina di Baltimora, ovvero un’americana pluridivorziata con qualche scheletro (nazista) di troppo nella cappelliera. Se quasi tutti conoscono il côté glamour della vicenda, oggetto delle fantasticherie delle fanciulle dell’epoca, forse meno romantico è quel che accadde immediatamente dopo alla malcapitata monarchia inglese. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, mentre Hitler tuonava dai microfoni germanici alla volta di mezza Europa, salì al trono Giorgio VI, B-B-Bertie per gli amici, affetto fin dalla più tenera età da un’ingombrante forma di balbuzie. Se per un monarca del XX secolo un discorso elegante vale più di una cavalcata in uniforme, Bertie, recalcitrante e cocciuto come ogni re che si rispetti, per non passare alla storia come “Re Giorgio il Balbuziente” sarà costretto a fare i conti con se stesso e con la malattia che lo affligge, ma soprattutto a vincere le sue angosce e quel paralizzante senso di inferiorità che lo accompagna da sempre.
“Il discorso del re”, intimista e in qualche modo epico al tempo stesso, racconta la vicenda di un improbabile incontro, fra due uomini, due sguardi sul mondo e sulla vita, che si trasforma progressivamente in una profonda e duratura amicizia, quella fra l’esitante Giorgio VI e il logopedista Logue (“esperto di problemi del parlato” per usare la sua curiosa definizione), eccentrico australiano con velleità attoriali e una passione sconfinata per Shakespeare, che metterà ben presto da parte la meccanica e gli esercizi mascellari a favore di metodi tutt’altro che tradizionali. Il film, vincitore del Toronto Film Festival, costruisce con maestria un racconto di formazione e di rinascita, il percorso di iniziazione di un uomo non più giovanissimo, che avrebbe il potere di dichiarare la pace e la guerra ma, paradossalmente, non trova la voce (il coraggio?) per farlo.
Il discorso del re al suo popolo, costretto dagli eventi polacchi ad annunciare l’inizio delle ostilità contro il terzo Reich, rappresenta il culmine emozionale di un film organizzato attorno ad una ricerca e a un desiderio potente di emancipazione rispetto ad una famiglia non certo anonima (un padre burbero, una madre anaffettiva, un fratello brillante e un po’ spaccone) e ad un entourage pronto ad impadronirsi di ogni frammento vagante di potere (la figura più subdola è forse l’Arcivescovo Lang di Derek Jacobi). A questo proposito non è forse un caso se il primo discorso che il futuro sovrano riesce a pronunciare, con l’ausilio di qualche trucchetto, è quello dell’”Amleto”. Bertie, almeno all’inizio, sembra davvero una reincarnazione moderna e un po’ goffa del pallido prince shakesperiano, un uomo che non desidererebbe governare (o forse inconsciamente lo vorrebbe, come gli suggerisce il medico, fin troppo perspicace) e che si ritrova, suo malgrado, invischiato nelle maglie opprimenti del potere.
Se l’interno del palazzo, inquadrato dall’alto, sembra una (dorata) prigione e all’inizio perfino il nome regale gli verrà imposto dall’esterno (è Churchill, che ha il ghigno diabolico di Timothy Spall, a sceglierlo), liberatosi almeno in parte dei fantasmi della propria infanzia, Bertie potrà forse conquistare il proprio posto nella Storia, imparando in primo luogo a governare se stesso, e alla fine non mancherà di dimostrare la propria riconoscenza al generoso e bizzarro “dottor” Logue.
Tom Hooper, acclamato regista televisivo (vincitore di innumerevoli Emmy e Golden Globe) e autore di Il maledetto United (controversa biografia del leggendario calciatore Brian Clough nei suoi 44 giorni da allenatore), gestisce con mestiere consumato le preziose carte a sue disposizione, avvalendosi di una sceneggiatura che, sorvolando su alcune lungaggini di troppo, evita eccessivi slanci sentimentalistici (forse il rischio maggiore per un soggetto di questo tipo), grazie soprattutto agli impareggiabili motti di spirito del “dottor” Longue e alle divertenti sgarbatezze del brusco sovrano.
Il discorso del re, ambientato quasi completamente in interni (costumi, volti, scenografie accuratissimi) fra le sale e i saloni dei palazzi reali e la casa – studio del logopedista, è naturalmente, forse soprattutto, una grande prova attoriale. Circondato da un’impressionante schiera di interpreti teatrali di ottimo livello (da Jacobi a Claire Bloom, da Michael Gambon a Anthony Andrews), Colin Firth, che debuttò a sua volta sui palcoscenici londinesi, si conferma come uno dei migliori interpreti contemporanei (dopo la straordinaria performance nei panni di Giorgio Falconer in A single man), intenso tanto nelle sue inaccessibili solitudini, quanto nei duetti con la moglie Elisabeth (un deliziosa e innamorata Helena Bonham Carter) e con il suo terapeuta (Geoffrey Rush, genialmente sopra le righe).
Con le sue svariate candidature (tra le quali ci sono le più ambite: miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista), Il discorso del re, pur deludente ai Golden Globe (dove è stato premiato solo Colin Firth), ha già messo un’ipoteca non indifferente sugli Oscar e, quasi certamente, non tornerà a casa a mani vuote.
(The King’s Speech) Regia: Tom Hooper; sceneggiatura: David Seidler; fotografia: Danny Cohen BSC; montaggio: Tariq Anwar; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Colin Firth (Re Giorgio VI), Helena Bonham Carter (Regina Elisabetta), Geoffrey Rush (Lionel Logue), Derek Jacobi (Arcivescovo Cosmo Lang), Jennifer Ehle (Myrtle Logue), Michael Gambon (Re Giorgio V), Guy Pierce (Re Eduardo VIII), Claire Bloom (Regina Maria), Eve Best (Wallis Simpson), Timothy Spall (Winston Churchill); produzione: See Saw Films Bedlam productions; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Regno Unito\Australia 2010; durata: 111’
