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Il Divo (Conferenza stampa)

Pubblicato il 29 maggio 2008 da Carlo Dutto


Il Divo (Conferenza stampa)

Roma. Intascato meritatamente il Premio della Giuria di Cannes e un prestigioso Premio tecnico per il miglior rapporto tra immagine e suono, raccolto sempre sulla Croisette, il film sul ‘divo’ Giulio esce in Italia in 340 copie, prodotto, tra gli altri dalla Campania e dalla Piemonte Film Commision. Paolo Sorrentino riceve l’applauso dei giornalisti, ancora scossi dalla visione del film, alla conferenza stampa avvenuta alla Casa del Cinema di Roma.

Il Divo ha subito suscitato aspre polemiche, dato anche l’argomento trattato..

Il film non è nato per creare una provocazione scandalistica, anzi: spero non avvengano polemiche, pur sapendo che dato il tema affrontato, sarà difficile non scatenarle. Alcune sono già piombate, anche di bassa lega…. Le polemiche mi auguro si concentrino più sul versante del film in sé che sugli aspetti politici. Ho tentato di evidenziare il teatrino dei guasti della politica, ormai ancorata su una esasperata auto-referenzialità, peggiore anche di quella del mondo della moda, ad esempio.

Quali sono le polemiche già avvenute di cui parli?

C’è chi dice che è un film troppo duro, chi dice sia troppo morbido, io lo trovo abbastanza verosimile, tutto qui.

Il Divo Andreotti dopo aver visto il film ha dichiarato che si tratta di una ‘mascalzonata’: sei uno dei pochi ad averlo fatto infuriare pubblicamente, hai evidentemente toccato un nervo sensibile, con un film davvero di denuncia…

Il mio intento non era quello di pungolare o farlo arrabbiare, ma sono contento di una sua reazione, è confortante pensare al cinema come uno dei più potenti mezzi di comunicazione. Io considero il cinema un ‘comunicatore di emozioni’ più che informazioni. Il cinema è il regno delle emozioni più che qualunque altro luogo!

Andreotti ti ha chiamato dopo la visione?

No, non ha il mio numero!

Perché questo titolo, Il Divo?

Il Divo è il soprannome che gli ha dato Mino Pecorelli e per me ha un doppio significato: da una parte sottolinea la mondanità, il divismo da star che Andreotti ha sempre vissuto, dall’altra la sua origine quasi divina, per come è venerato in politica.

Un film sulla verità e sulla menzogna, sul bene e il male, una ambiguità evidente, ben evidenziata sullo schermo. Come ti sei rapportato nel film a questa ambiguità del personaggio?

Il Divo è costruito attorno a un personaggio che ha tenuto un comportamento ambiguo per anni, un personaggio che ha coltivato l’ambiguità coscientemente. Il film in questo mantiene l’ambiguità, tranne nel monologo di Andreotti (in cui ammette, in un violento primo piano di Servillo tutte le colpe della sua vita politica, ndr), che ho ipotizzato io e che ben spiega cosa penso dei concetti di verità e menzogna. In questa scena Servillo recita al di fuori di tutto il registro generale del film, una sorta di urlatore à la Vito. Ho trovato giusto, dopo un anno che lavoravo ai materiali per il film, segnalare le mie considerazioni su ciò che si vede e ciò che non si vede nel film, per dare una mia ipotesi, una mia netta presa di posizione. Troppi registi infatti non prendono posizione sui personaggi che trattano.

Un cinema che spettacolarizza la politica con il tuo registro, così originale, cosa si può aspettare al botteghino?

La mia speranza è che siano i giovani in maggioranza andare al cinema a vedere il film. Non ho voluto fare rivelazioni inedite su Andreotti, ma ho sistematizzato, ordinato e collegato notizie frammentarie e che sembravano slegate tra loro. Ho spettacolarizzato ciò che spettacolare non è, la vita di un politico: mi sembra arduo pensare alla Democrazia Cristiana come un qualcosa di spettacolare. In Italia sempre più bisogna fare i conti con film biografici, io penso che serva molta prudenza per affrontare la vita di personaggi celebri, che data la produzione enorme soprattutto in ambito televisivo, sembrano più agiografie che biografie, troppo spesso si assecondano i personaggi, descrivendone solo i lati positivi.

Hai diviso il film in due tronconi dal punto di vista stilistico: una prima parte che descrive la cricca di Andreotti, con una musica che amplifica il senso del grottesco, dalla rumba al chachacha alla salsa. Una seconda parte invece narra dei processi e dei guai giudiziari di Andreotti, e qui prende il sopravvento un altro rigore stilistico, dando più umanità al personaggio. Come ti sei mosso per la scelta stilistica delle due parti?

Lo stile va sempre di pari passo con la trama. Nel film ho utilizzato due diversi registri stilistici: l’iconografia del potere così misteriosa, a sé stante, irraggiungibile ha per sua natura una funzione estetica con più appigli: l’immobilismo politico dell’ultimo governo Andreotti, che non fece alcuna riforma è un immobilismo che ho reso soprattutto nella prima parte con un immobilismo del personaggio e degli uomini della sua corrente. Un immobilismo che Andreotti abbandona,econ lui anche il registro del film, quando, dopo aver superato indenne il ciclone di Tangentopoli, fu accusato di mafia.

Per la prima volta si assiste a un Andreotti diverso da quello che i media hanno sempre descritto, un Andreotti lontano dalle lodi anche della Sinistra italiana, che lo ha sempre adulato come uomo di intelligenza e cultura raffinatissime, anche nel 1975, dopo le elezioni amministrative, disastrose per la DC. Ma la scena in cui la moglie lo accusa del contrario, sottolineando che Andreotti vuole essere ricordato più come un uomo colto che un grande statista, rende in qualche modo giustizia. Spettacolarizzare la DC è stata quindi la chiave di volta del film…

Ho spettacolarizzato molto i personaggi di allora, ma di certo Fanfani non potevo farlo sembrare Tarzan! Il personaggio di Pomicino, invece (interpretato magistralmente da Carlo Buccirosso, ndr) mi ha dato più opportunità inventive: come indole personale l’ex ministro era meno vicino al proverbiale understatement democristiano, ma più spinto verso il ‘vitalismo’ craxiano. Ho parlato con Pomicino un giorno intero a Pavia, mentre era in attesa del trapianto e molti degli episodi del film mi sono stati raccontati proprio da lui. Per esempio quando Andreotti gli dice: “Mi stai dando dello stronzo?”, cosa strana immaginare una parolaccia dalla bocca di Andreotti. Pomicino mi ha anche descritto i riti della vita mondana di Andreotti. Avrei potuto fare un film a parte a riguardo: la vita mondana di Andreotti è come l’ho tratteggiata nel film, dove non ho inserito le serate al Piper o la mondanità sulle navi da crociera. Un altro aspetto che volutamente, per ragioni di spazio, non ho molto sviluppato sono i rapporti di Andreotti con il Vaticano.

Risulta di grande impatto la scena dell’incontro tra il capo dei capi della mafia, Totò Riina e Andreotti, avvenuto sotto gli occhi dell’autista di Riina, il futuro pentito Balduccio Di Maggio…

Quella scena è la ragione principale per cui ho girato questo film. Sono consapevole che non girerò mai più nella vita una scena tanto forte, sarebbe stato ipocrita non inserire quell’episodio, basato sulle rivelazioni del pentito.

La colonna sonora de Il Divo spicca per originalità delle scelte nelle musiche non originali: si passa da Vivaldi a Renato Zero. Come hai affrontato la scelta delle musiche?

A dire il vero, l’intenzione iniziale era quella di utilizzare più musica rock per fare proprio un’Opera rock su Andreotti, un film in cui la musica avrebbe ‘lavorato contro’ l’immagine statica e polverosa di un partito e di un politico con relazioni particolari. Nel primo montaggio il film aveva più musica rock, ma poi sarebbe stata quasi una esibizione da dj e utilizzando la musica classica ho potuto invece contare su un maggiore senso di contrappunto.

L’Andreotti de Il Divo è uno dei tuoi classici personaggi, forse più machiavellico dei precedenti, più di Titta Di Girolamo, quasi con accenti horror. Nella fase di scrittura, come te lo sei immaginato?

Quando ho iniziato a scrivere il film, non volevo cadere nella trappola di descriverlo come Nosferatu, sarebbe stato troppo semplice, ma quando ho inizito a conoscerlo,ho visto che in effetti vive e si muove come poi Servillo ha ben impersonato: quando va via, fa due passi indietro per non dare le spalle, cammina come se scivolasse, come un robot. L’aspetto horror per me non è così presente, io stesso non conosco bene l’iconografia del genere, dato che non ne vedo quasi mai – mi fanno paura. Ma quando sono andato a trovare Andreotti a casa sua mi ha subito colpito che, come si vede nel film, vive con le serrande perennemente abbassate,lasciando la casa quasi al buio. Andreotti è un personaggio che mi ha ispirato molto: basti pensare che la scena di apertura, con la sessione di agopuntura facciale mi è stata ispirata dalla verità: Andreotti infatti usa l’agopuntura per curare le frequenti emicranie di cui soffre.

Una dei pregi del film è che hai evitato, nel trasporre personaggi veri, la ‘bagarinata’, cogliendo invece la metafisicità del potere, un aspetto che ricorreva sempre nei film di Elio Petri, cui sei stato più volte paragonato nei giorni di Cannes..

Mi piace molto l’intera filmografia di Petri, un regista che riusciva a coniugare la ricerca formale con argomenti prioritari, temi forti e reali. Io comunque cerco di evitare di guardare troppo ai grandi maestri, mi risulterebbe pericoloso, anche perché sono cambiate le modalità di interpretare la realtà.

Una delle forze del film risulta della messa in scena dell’autonomia della finzione e in questo Il Divo si collega molto a Buongiorno,notte di Bellocchio.

Il film di Bellocchio ha il pregio di aver tentato una via nuova per un tema già ampiamente conosciuto, una tragedia collettiva, ma tuttavia il mio e il suo sono due film diversi, pur trovandosi su un terreno di invenzione metafisica della realtà nelle scene della confessione di Andreotti e nella fuga finale di Moro.

Oltre al citato Pomicino e ad Andreotti stesso, hai incontrato altri protagonisti dell’epoca per il tuo film?

Si, ho incontrato molti dei personaggi,ma sono sicuro che non vorrebbero si sapesse, quindi rispetto la loro privacy!

Le due storie di donne che descrivi, una - interpretata da Fanny Ardant - che frequenta il suo studio, moglie di un ambasciatore e un’altra, la citata sorella di Vittorio Gassmann per cui avrebbe avuto una cotta, sono reali?

Si, sono storie vere. Del suo debole per la sorella di Gassman ne parlò lui stesso, per quanto riguarda la donna che veniva a chiedere consigli sul suo matrimonio, la storia è vera, ma la forzatura sta nel fatto che l’ho immaginata moglie di un ambasciatore.

Le critiche piovute in Italia sul cinema italiano riguardano l’immagine dell’Italia all’estero di film che denunciano sempre mali italiani e che disegnano uno scenario degradante del nostro paese. Cosa ne pensi?

Ho letto le critiche sul nostro cinema e su Gomorra giunte da personaggi quali Afef e Pino Daniele, che sono persone che non conoscono il cinema. Per quanto riguarda Pino Daniele in particolare mi sembra un giudizio ipocrita, dal momento che ha raggiunto il successo con una canzone come Napul’è, che raccontava i mali della città di quell’epoca. Secondo me infatti non esiste un buon film che non tratti di temi critici, i migliori film sono quelli che pongono riflessioni, che instillano la critica. Gramellini su La Stampa ha scritto che chi accusa il cinema di mostrare il peggio dell’Italia sono persone che intendono il cinema come un depliant turistico. Film che non colpiscono, pessimi, come il recente Un’ottima annata. Anche un film che adoro come Voglia di tenerezza pur passando come un’opera ruffiana, per me è un capolavoro per come riesce ad avere spunti critici spesso negativi sui personaggi che descrive. L’unico che mi mette sempre d’accordo è solo Frank Capra.

I tuoi film hanno la caratteristica di essere profondamente ancorati alla realtà della storia italiana: sono racconti di personaggi ‘esemplari’ di una certa Italia...

I quattro film da me girati sono molto, forse troppo reali, realistici. Il mio approccio a questi temi della realtà avviene su più livelli stilistici, abbracciando per esempio la chiave di racconto del grottesco. Non amo lo stile documentaristico per raccontare la realtà, preferirei fare un film politico di fantascienza.

Roma, 27 maggio 2008


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