Il dubbio

“Il dubbio è tanto rassicurante quanto la certezza” La notte dei Golden Globes è separata da quella degli Oscar da circa un mese di tempo. Non un grandissimo periodo, ma lungo abbastanza per permettere ai film protagonisti dell’una e/o dell’altra serata di mostrarsi ai nostri occhi e sottoporsi al giudizio dello spettatore italiano. E’ il caso ad esempio di Doubt, in uscita nelle nostre sale proprio in questi giorni, a tre settimane circa di distanza dai verdetti dell’11 gennaio e a tre dalle future attese decisioni dell’Academy. Distrutto dai colpi delle più grandi e quotate opere di quest’anno, il film è purtroppo uscito malconcio dalla serata al Beverly Hilton, senza alcun premio in tasca ma con l’intima speranza che per una volta la fama dei Golden Globes (definiti da sempre l’anticamera degli Oscar) possa essere finalmente smentita e la tradizione sovvertita dalla vittoria finale di qualche preziosa statuetta. Perché Il dubbio di Shanley qualche riconoscimento lo merita; non per l’opera nella sua totalità probabilmente, in certi tratti lacunosa e carente, ma per alcune sue componenti fondamentali. Quelle che poi sostanzialmente trainano il film e lo rendono affascinante all’esterno. Come la storia ad esempio, che, ricavata dall’omonima pièce teatrale dello stesso autore (tra l’altro già messa in scena nel nostro paese per la regia di Sergio Castellitto e l’interpretazione di Stefano Accorsi), racconta in maniera composta ed emozionante la piaga aberrante della pedofilia. Shanley si allontana nettamente dalle opere che hanno già trattato l’argomento in passato, optando invece per un punto di vista freddo e mai vouyeristico. Un atteggiamento che include tutte le possibilità, senza mai dare nulla per scontato e, quello che più conta, senza mai risultare a priori sommario e approssimativo. La storia si concentra più sul corollario di voci e pettegolezzi che percorrono rapidamente la scuola e la parrocchia adiacente. Non sull’atto in sé quindi ma sull’aura di incertezza che solitamente avvolge una comunità colpita da un dramma. Alla struttura cronachistica o investigativa, l’autore newyorkese predilige l’esplorazione psicologica e comportamentale. Concentra ovvero il suo sguardo sulla fenomenologia umana che reagisce in maniera diversa ed istintiva di fronte al trauma collettivo. Il dubbio si erge, in sostanza, a vero protagonista della pellicola. Si insinua in ogni anfratto narrativo e colpisce con estrema precisione i personaggi della vicenda spogliandoli, uno ad uno e attimo dopo attimo, della sicurezza che li veste. Il regista è bravo nel saper adattare ogni elemento drammaturgico alle regole dell’incertezza, compreso l’atto della visione. Il suo tocco trascende quindi anche lo schermo per andare ad instillare nello spettatore lo stesso dubbio che scuote la scena. Non pretende dal pubblico un giudizio sui fatti (ovvio e scontato), non chiede di puntare il dito su Padre Flynn, presunto protagonista della squallida vicenda (accusato di avere particolari attenzioni nei confronti di un bambino di colore della scuola), né tantomeno di ergersi a suo difensore. Egli deve solamente osservare le reazioni di ogni personaggio e a sua volta reagire di fronte all’accaduto, come se il pettegolezzo arrivasse per caso alle sue orecchie e come se anche lui fosse lì, immerso nel delicato contesto sociale newyorkese degli anni ‘60, con i suoi tormenti sociali, le sue piaghe collettive ed i cambiamenti epocali ormai alle porte (siamo esattamente nel 1964, all’indomani dell’assassinio di Kennedy).
Oltre alla storia l’altro punto di forza del film è senza dubbio il cast. Grandioso nei nomi che lo compongono e ancora più eccezionale nelle performance. Mentre la straordinaria Meryl Streep consegna una interpretazione di sorella Aloysious (preside della scuola e principale accusatrice di Padre Flynn) assolutamente strabiliante, allusiva in ogni gesto ed espressione del volto e sempre in bilico tra una compostezza tipica del ruolo e una spietata intransigenza ispirata dagli avvenimenti, allo stesso tempo Philip Seymour Hoffman conferma, per l’ennesima volta, il suo stato di grazia (che ormai continua da circa due anni) in una non facile restituzione della psicologia variegata di Padre Flynn. Ma se con questi attori siamo nel campo del conosciuto e del prevedibile, non si può dire la stessa cosa delle interpretazioni di Viola Davis ed Amy Adams, inaspettate rivelazioni di un cast tra i più riusciti e ben amalgamati degli ultimi anni (non è un caso se 4 delle 5 nominations ai Golden Globes sono state assegnate per le interpretazioni). A mettere ancora più in evidenza tali fattori contribuisce poi una mise en scene molto scarna ed essenziale, in grado di far risaltare i tratti peculiari della storia e le sottili sfumature della recitazione. La struttura messa a punto da Shanley si compone di grandi blocchi di racconto, distinti tra loro ma nel complesso ottimamente uniti dall’autore in un unicum narrativo equilibrato e lineare. L’unico difetto che emerge da questi comparti è probabilmente una eccessiva prolissità, figlia senza dubbio di una origine teatrale ingombrante. La sceneggiatura di Shanley risente infatti in alcune sue parti di una non evidente cesura nei confronti del testo teatrale, ancora troppo presente sul set per poter permettere al racconto di assumere in pieno i tratti e le caratteristiche che il mezzo cinematografico richiede. Elemento che condiziona anche il ritmo del film, compassato per scelta, ma talmente monocorde da risultare a lungo andare leggermente stancante. Difetto endemico dell’opera da non attribuire certamente alla bravura di un montatore esperto come Dylan Tichenor (già collaboratore in passato di Robert Altman e Paul Thomas Anderson). Per il resto questa seconda nascita cinematografica (il suo esordio risale al 1990) di Shanley regala ampi sprazzi di buon cinema, legato ad una scrittura efficace, dissacrante ed in certi tratti pungente nei confronti di un periodo storico delicato ed integerrimo (almeno nelle apparenze). La perlustrazione sociologica incombente che fa da sfondo all’intera vicenda trova risalto nel lavoro meticoloso del direttore della fotografia Roger Deakins, eccezionale nel saper dare al film un impianto visivo calzante con l’argomento ed il contesto; nelle costruzioni scenografiche di David Gropman, nomination agli Oscar per Le regole della casa del sidro e al lavoro della costumista Ann Roth, quattro candidature in passato per lei, qui alle prese con la sobrietà ed il minimalismo culturale degli anni ’60. Insomma un grande e corposo film da ammirare più volte solo per avere il gusto di scoprire attimi inesplorati e scelte estetiche da rivalutare. La corsa agli Oscar è iniziata ed il 22 sapremo se quella regola verrà sovvertita per almeno una delle stesse cinque nominations ereditate dai Golden Globes (Attore protagonista, Attrice protagonista, due attrici non protagoniste e la sceneggiatura originale di Shanley). Ma una cosa è certa sin da ora. Dopo la consegna dei nominati di quest’anno, non è esagerato ammettere che, qualsiasi sia la futura decisione dell’Academy, il cast nella sua interezza è già da considerarsi uno dei vincitori morali di questa ottantunesima edizione degli Oscar.
(Doubt) Regia: John Patrick Shanley; sceneggiatura: John Patrick Shanley, tratta dall’omonima pièce teatrale dello stesso autore; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Dylan Tichenor; musiche: Howard Shore; scenografia: David Gropman; costumi: Ann Roth; interpreti: Meryl Streep, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Viola Davis; produzione: Scott Rudin Productions, Goodspeed Productions; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures Italia; origine: USA; durata: 104’; web info: http://www.ildubbio-ilfilm.it/
