Il mio nome è Khan

Un magnifico polpettone firmato Bollywood My name is Khan, Evento Speciale del Festival di Roma e già presentato fuori concorso alla Berlinale 2010. Una grande ed emozionante favola del presente che punta dritto al lacrimone facile con tanti luoghi comuni e una furba cifra stilistica. E’ un film kitsch, sopra le righe, esasperato in ogni situazione e nella caratterizzazione dei personaggi, sempre pronto a far sembrare ordinario lo straordinario; è un’opera che insiste (anche troppo) sul valore dei sogni, della giustizia, della fratellanza, della pace. Ma è una bella favola dei nostri tempi che senza alcuna presunzione si fa portatrice di immensi messaggi sociali, che guarda all’attuale situazione culturale del mondo con la speranza di poterla in qualche modo cambiare, migliorare. Protagonista il Khan del titolo, Karan Khan, indiano musulmano trapiantato in America affetto da sindrome di Ansperger, che all’inizio del film vediamo preso alla ricerca del presidente degli Stati Uniti. All’aeroporto viene arrestato e perquisito dalla polizia che lo crede un terrorista. Accertata la sua innocenza e finalmente rilasciato, Khan svela il motivo per cui vuole incontrare il presidente; vuole semplicemente dirgli: My name is Kahn and I’m not a terrorist. Ecco allora che parte un lunghissimo flashback che andrà a ripercorrere tutta la vita del personaggio dall’infanzia in India fino a questo momento. Un’infanzia segnata dalla malattia mentale, dalle prese in giro dei compagni di classe, dalle lezioni del suo maestro, dal rapporto difficile col fratello minore e dagli insegnamenti della madre (non esistono razze, esistono solo persone buone e persone cattive). Poi in età adulta il trasferimento a San Francisco, dove ha trovato successo il fratello, e la cotta presa per la dolce ed affascinante parrucchiera Mandira, indiana di religione Hindu con figlio a carico. Da questo momento il film cambia totalmente. Se nella prima parte la descrizione della realtà indiana, del suo povero e difficile paesaggio umano, dei suoi scontri culturali, della gioia dei bambini aveva una notevole forza visiva, dopo l’incontro con Mandira il film si fa sempre più prevedibile, sia da un punto di vista narrativo che stilistico. Impazzano i ralenti, domina la musica di commento, il montaggio iterativo è incessante; si ripetono le stesse situazioni, la storia d’amore prende il sopravvento su tutto, l’elemento sociale va in secondo piano, il racconto si fa sdolcinato e il corteggiamento di Khan nei confronti della bella parrucchiera non finisce più. Eppure, nonostante tutto questo, il film continua a funzionare, ad interessare, a prendere lo spettatore. Perché sostanzialmente è Bollywood che ci avvolge nel suo vortice colorato ed ipercinetico, mai pessimista, sempre positivo, che fa sognare il pubblico. La sua vera forza, per assurdo, risiede proprio nello stile che, pur considerati tutti i difetti, non vuole nascondere in alcun modo la sua furbizia, la sua ingenuità, il suo evidente desiderio di osare per far colpo sui sentimenti. In My Name is Khan è tutto smaccatamente esagerato (partendo dalla durata, 2 ore e quaranta), tutto involontariamente artificioso.
Successivamente, quando i grandi eventi della storia recente (dall’11 settembre alla guerra in Iraq) fanno capolino nel racconto, il film cambia di nuovo rotta e va a trattare, tra una tragedia e l’altra, tematiche quali razzismo, interculturalità, integralismo. Insomma, tutti i grandi temi del presente, tutte quelle dinamiche sociali diventate protagoniste dal 2001 a oggi.
C’è tanta, tanta roba in My Name is Khan. Un impasto di riflessioni, buonismo, morale, speranze. Un film tanto banale quanto importante che porta il pubblico a pensare, a ragionare su se stesso, sulla sua importanza nel mondo. Un’opera realizzata per far aprire gli occhi sulla realtà e per far sognare.
Definibile il Forrest Gump bollywoodiano (rimanendo lontano anni luce dalla bellezza di quel film), My Name is Khan è una grande epopea, commovente, emozionante, che trova la sua bellezza nelle sue infinite imperfezioni, nel suo incedere narrativo scostante, nella sua forma che non ha il senso della misura. Un film che il grande pubblico sicuramente amerà.
(My Name is Khan) Regia: Karan Johar; sceneggiatura: Karan Johar, Shibani Bathija; fotografia: Ravi K. Chandran; montaggio: Deepa Bhatia; musica: Shankar Ehsaan Loy; interpreti: Shah Rukh Khan (Rizvan Khan), Kajol (Mandira), Jimmy Shergill, Tanay Chheda; produzione: Dharma Productions; distribuzione: Fox Searchlight Pictures; origine: India; durata: 165’.
