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Il missionario

Pubblicato il 21 febbraio 2010 da Lorenzo Vincenti


Il missionario

In parte trascurato dal pubblico francese ma promosso qui in Italia come fosse una commedia d’eccellenza, di quelle da sentirsi male per intenderci, questo ‘simpatico’ Le missionnaire del regista transalpino Roger Delattre (all’esordio) si rivela in realtà, alla luce di quanto mostrato, niente più che un film anonimo. Poco ispirato per quanto riguarda la sua carica comica e decisamente ripetitivo nell’utilizzo di meccanismi sin troppo abusati dal cinema recente. La storia, ad esempio, non lascia gustare sapori originali allo spettatore specie quando dichiara apertamente di volersi risolvere sulla esclusiva forza dei personaggi e sulle vorticose dinamiche scaturite da malintesi continui, dal riconoscibile gioco degli equivoci o da quel rinomato ‘scambio di ruoli’ su cui gran parte del cinema comico contemporaneo fonda le proprie basi (quello nostrano ad esempio sembra non poterne proprio fare a meno). Essa ci racconta le vicende di un galeotto che, una volta uscito di prigione, si ritrova a dover sfuggire alle pressioni di due ex-soci in affari il cui unico intento è quello di recuperare la loro parte di un bottino nascosto dallo stesso Mario (questo il nome del protagonista) prima del suo arresto. Quest’ultimo però, dopo aver resistito alle prime minacce dei due malviventi, riesce con l’aiuto del fratello sacerdote ad escogitare uno stratagemma bizzarro che lo allontana momentaneamente dai suoi inseguitori. Indossa anch’egli l’abito talare e si rifugia in uno sperduto paesino dell’Ardeche dove ad attenderlo trova una piccola comunità di fedeli pronta ad accogliere quello che tutti credono essere il nuovo parroco di zona (mandato in sostituzione del vecchio purtroppo defunto). Come già accennato, da questo momento in poi il film inaugura un balletto degli equivoci infinito e, alla lunga, stancante, giocato in un primo momento sul doppio senso e poi sulla classica conversione dei ruoli il cui effetto porterà addirittura il nostro finto sacerdote, un tempo criminale rozzo ed efferato, a tentare una improbabile riconciliazione tra le tre grandi religioni monoteiste (un po’ troppo pretenzioso forse?), in un crescendo ritmico evidente e in un altrettanto evidente sfilacciamento narrativo. Trascurando a priori l’ipotesi di una scrittura raffinata e ricercata (che non avrebbe di certo recato danno al soggetto), Delattre compie con questa sua opera prima una scelta evidente e chiara. Quella di andare ad esaltare un’immediatezza dell’atto comico in grado di arrivare rapidamente allo spettatore, ma incapace di lasciargli qualcosa di concreto alla fine dello spettacolo. A parte qualche risata sporadica, qualche momento di interesse isolato e una seconda parte del film senza dubbio più effervescente di uno sviluppo iniziale statico e farraginoso, questa piccola commedia francese non va infatti oltre la risata fine a se stessa, una risata scaturita dall’effetto di una volgarità inconcludente e da un parossismo degli eventi forzato piuttosto che da un sapiente utilizzo del linguaggio, dello spazio e del corpo. Tre strumenti determinanti alla riuscita comica e tutti incredibilmente trascurati da un film che avrebbe dovuto e potuto, più di qualunque altra opera, puntare su di essi. E’ sufficiente, ad esempio, pensare all’utilizzo delle parole e del concetto di lontananza geografica proposti da un’altra commedia recentemente realizzata in Francia, Giù al nord, per capire quanto su queste componenti si debbano ormai giocare le carte di una comicità più intelligente e matura. E per capire soprattutto come abbia fatto un film come Il missionario a disdegnare tutto ciò nonostante avesse la possibilità di sfruttare l’ambientazione rurale e provinciale di un piccolo paesino del sud della Francia, elemento potenzialmente esplosivo per una messa in scena di un microcosmo effervescente (ricordate la Brescello di Don Camillo?), e un contesto socio-culturale che avrebbe permesso di giocare sapientemente con le parole più di quanto non facciano le insipide battute iniziali del film (“Ho bisogno di un cellulare. Il più potente”, “Ho qui proprio il più potente. L’onnipotente” – scambio di battute tra il finto Don Mario e un rivenditore telefonico). Altra cosa, sinceramente, era il Carlo Verdone impostore di Acqua e sapone che per mascherare il suo inganno dava vita a circonlocuzioni mitiche e folate improvvise di comicità geniale (chi non ricorda l’estensione dell’acronimo Atac in Associazione Teologica Amici Cristo?… intera rete!). C’è da dire inoltre che anche l’utilizzo del corpo, quale strumento primario di trasmissione comica, viene purtroppo malamente sfruttato dal regista il quale, nella sua messa in scena, opta più per una rappresentazione carnevalesca poco espressiva, in cui le maschere rappresentate non concedono molto spazio né alla fisicità del ruolo interpretato (ricordiamo quanto distante in questo senso sia ancora la saga di Don Camillo ma anche il recentissimo e geniale Louise Michel) né alla parodia dello stesso (il prete ballerino di Celentano in Qua la mano). Nonostante questo, però, è opportuno sottolineare come la buona interpretazione degli attori, conceda quanto meno al film la possibilità di essere seguito fino alla fine senza necessariamente incappare nel proverbiale colpo di sonno. Un cast variegato e ben assortito in cui spiccano senza dubbio le interpretazioni del protagonista Jean-Marie Bigard (il finto Don Mario, coautore del film) ovviamente e quella di David Strajmayster, esilarante fratello di Mario che, contrariamente alla conversione di quest’ultimo, passa all’interno del film dalla vita casta del sacerdozio agli stravizi di una vita dissipata e senza limiti. Un passaggio calibrato e curato nei particolari da un bravo attore caratterista capace di saltare in corso d’opera da un tipo d’uomo schivo, introverso e pudico al carattere esaltato ed esagerato di un neoputtaniere cocainomane. Senza dubbio uno degli elementi positivi del film. Al pari, probabilmente di un paio di attimi efficaci e sicuramente ben orchestrati dal regista come quello del pestaggio dei gendarmi ai danni del vero parroco arrivato improvvisamente in paese e la sequenza della megaconfessione cittadina risolta da un impreparato Don Mario con metodi alquanto bizzarri. Più adatti ovviamente alla vita di strada che ad un approccio spirituale degli eventi. Momenti isolati e purtroppo troppo brevi di un piccolo film francese non esaltante, che nonostante goda della benedizione (produttiva) di un personaggio rilevante come Luc Besson (Delattre è un suo fedele collaboratore) corre rapidamente via senza lasciare traccia alcuna del proprio passaggio.


CAST & CREDITS

(Le missionnaire) Regia: Roger Delattre; soggetto e sceneggiatura: Philippe Giangreco, Jean-Marie Bigard; fotografia: Thierry Arbogast; montaggio: Yves Beloniak; musica: Alexandre Azaria; interpreti: Jean-Marie Bigard (Mario), Doudi Strajmayster (Patrick), Aïssatou Thiam (Nadine), Jean Dell (Cap. della Gendarmeria), Michel Chesneau (Sidaco del paese); produzione: Europacorp, TF1 Films Production, Ciby 2000; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Francia; durata: 91’; web info: Sito italiano


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