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Il mistero della pietra magica

Pubblicato il 22 agosto 2009 da Lorenzo Vincenti


Il mistero della pietra magica

Ogni qualvolta si è chiamati a dissertare di arte in generale viene quasi automatico accantonare dall’elenco dei concetti utilizzabili quello riguardante il compromesso. Questo sembra essere il frutto di una reminescenza culturale che da secoli accompagna l’essere umano e grazie alla quale si tenta ogni volta di salvaguardare quella libertà di movimento necessaria ai fini di un adeguato processo creativo. E’ inattaccabile il concetto per cui tale impermeabilità abbia garantito nei diversi campi artistici risultati eccelsi ma è altrettanto inconfutabile la tesi secondo la quale non tutte le arti vengono allo stesso modo condizionate dall’eventuale avvicinamento tra le parti. Nel cinema, ad esempio, questa romantica incongruenza tra arte e compromesso non è stata mai così categorica, a causa, o per fortuna, di quella sua duplice natura costantemente in bilico tra la difesa della dignità artistica e il rispetto dei rigidi meccanismi industriali entro cui esso si muove. Ci sono registi che si sono completamente donati al compromesso e hanno svenduto la propria arte. Ce ne sono altri che invece hanno abbattuto tali barriere creando una vera e propria “arte del compromesso”. Autori completi, questi ultimi, che non hanno abdicato in favore di una alienazione totale alle leggi del profitto, ma che hanno saputo strizzare l’occhio all’establishment per poi raccogliere i frutti dell’ammiccamento e avere la possibilità di realizzare l’opera intima e personale. Vengono in mente i nomi di abili e raffinati gestori della propria carriera come Van Sant (racimola soldi da Will Hunting e per reinvestirli in Gerry), o esempi di casi isolati come Lynch (sceso a compromessi con i soli The Elephant Man e Dune), viene in mente Spike Lee, vero e proprio inventore del concetto di “marchetta” militante e rivoluzionaria (pratica attuata per sconfiggere le ritrosie del mercato di fronte alle differenze razziali) e il caso anomalo di Robert Rodriguez.

Includiamo il regista texano in questa lista perché da sempre egli convive con una duplice anima che gli ha consentito e gli consente tuttora di esprimersi al massimo delle possibilità solo saltando, di tanto in tanto, dalle maledizioni e dalle putrescenze del cinema pulp (quello benedetto dal fratellone Tarantino), alle scintillanti allegorie dei suoi “video-giochi” sollazzanti, meno consistenti dei suoi film più importanti ma comunque remunerativi. Una filmografia variegata capace di mettere a confronto i mariachi della trilogia messicana con i giocattolai e i bimbi dei tre Spy-kids, i vampiri di Dal tramonto all’alba con Sharkboy e Lavagirl, l’omaggio al cinema passato di serie b con i divertissement che guardano ad un futuro in 3-D, fino ad arrivare ovviamente allo scontro attuale tra il trash di Grindhouse: Planet Terror e le avventure solleticanti e caramellose raccontate da Il mistero della pietra magica, ultimissimo film di Rodriguez in uscita proprio in questi giorni nelle nostre sale. L’opera racconta in sintesi la storia di una comunità alienata dalla tecnologia, invasa da un modernismo che distrugge il rapporto umano e che non permette di apprezzare il valore di una pietra magica intervenuta per riportare pace e armonia tra la gente. Solo il mondo dei più piccoli, dopo mille peripezie e avventure al limite dell’assurdo riuscirà a superare tali divergenze, a capire il ruolo assunto dalla pietra e ad aprire la strada alla riconciliazione anche tra gli adulti ottusi e arrivisti. Nuova fiaba sui generis perciò e altro salto per il bravo e irrequieto Robert che, a distanza di qualche anno, torna nuovamente a giocare in maniera travolgente con ciò che di più frivolo il cinema è in grado di proporre. Questo suo nuovo sforzo, che riparte esattamente da dove i suoi precedenti del genere si erano fermati, non sembra in grado di aggiungere nulla di nuovo ad una pratica, consolidata ed efficace, ormai controllata dal regista con la stessa disinvoltura con cui parallelamente riesce ad orchestrare atmosfere orrorifiche e sintassi più articolate. Il suo strumento acchiappa soldi o, se vogliamo sforzarci di essere accomodanti, il suo delizioso cinema giovanilistico si struttura infatti su schemi ben precisi che traggono ispirazione dai videogame d’avventura, dalle costanti della tv per ragazzi e da una componente di certo non trascurabile nel cinema di Rodriguez: la fantasia. Una fantasia stimolante e illimitata, sempre al servizio dei più piccoli e sempre schierata contro l’ottusità, la meschinità del genere umano adulto, la cui insaziabile voglia di potere rischia di provocare talvolta danni irreparabili. Anche in questo film il messaggio di Rodriguez è chiaro e diretto contro l’irresponsabilità insita nell’essere umano, persino incapace, in questo caso, di sfruttare nel modo dovuto i poteri di una pietra magica in grado di esaudire ogni tipo di richiesta. Dietro le bizzarrie e le storielle narrate dal suo film, dietro quella sua estetica incentrata sugli effetti speciali, su un umorismo caramelloso e su una alternativa gestione delle componenti filmiche (qui sembra divertirsi con il fattore tempo del film, più volte spezzettato e presentato al pubblico in maniera scomposta), Rodriguez nasconde perciò la propria invettiva e lo fa schierandosi dalla parte degli adolescenti i quali secondo la sua logica si dimostrano comunque, anche sbagliando, molto più sinceri, puri e dediti alla redenzione degli adulti. Il film non pretende di raggiungere lidi insperati, né tanto meno di sorprendere per originalità e intraprendenza. Esso vuole intrattenere solo per il piacere di farlo, con la leggerezza degli argomenti evasivi e con la professionalità di un regista sempre molto lungimirante e meticoloso nel capire i tasti da spingere e nel gestire personalmente ogni componente della propria opera, dalla scrittura al montaggio, dalla fotografia alle musiche. Già, perché Il mistero della pietra magica è anche l’occasione per un regista come Rodriguez di tenersi in forma, di muoversi a proprio piacimento senza risentire delle tensioni che solitamente accompagnano l’evento che conta. Per questo motivo egli si concede totalmente alla realizzazione dell’opera, forse perché costituisce la più concreta occasione di sperimentare, provare ed eventualmente anche fallire. Così come questo suo ultimo giochino che in alcuni casi risulta troppo lezioso nella messa in scena ed eccessivamente scollato tra le parti. Difetto imputabile ad una sceneggiatura evanescente, che ogni tanto sembra smarrirsi dietro direzioni improvvise quanto impercorribili. A rimanere intatta è però l’ironia e la freschezza a cui si accennava in precedenza, riconducibile a volti accattivanti e a ruoli ben definiti, scritti tenendo bene a mente i “tipi” da inserire necessariamente in quella che si potrebbe definire una fiaba moderna o poco convenzionale. Fatta di fantasia spinta all’estremo, action pura al servizio dell’innocenza adolescenziale e richiami alle piaghe di un mondo reale evocato ma tenuto sempre sullo sfondo dall’autore per non rischiare né di appesantire le maglie gradevoli della narrazione, né di rendere vana la morale che questi suoi film apparentemente semplici tentano di trasmettere al proprio pubblico.


CAST & CREDITS

(Shorts) Regia: Robert Rodriguez; soggetto e sceneggiatura: Robert Rodriguez; fotografia: Robert Rodriguez; montaggio: Ethan Maniquis, Robert Rodriguez; musiche: Geroge Oldziey, Robert Rodriguez, Carl Thiel; scenografia: Gabriella Villareal; costumi: Nina Proctor; interpreti: Jimmy Bennett (Toe Thompson), Jake Short (Nose Noseworthy), Kat Dennings (Stacey Thompson), Trevor Gagnon (Loogie), Devon Gearhart (Cole Black), Jolie Vanier (Helvetica Black), William H. Macy (Dr. Noseworthy), James Spader (Mr. Black); produzione: Imagenation Abu Dhabi FZ, Lin Pictures, Media Rights Capital, Troublemaker Studios; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, Arabia Saudita; durata: 89’; web info: http://wwws.warnerbros.it/shorts/ma....


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