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Il monaco

Pubblicato il 19 agosto 2003 da Alessandro Izzi


Il monaco

Liberiamo subito il campo da possibili equivoci: Il monaco è un film decisamente insulso ed abbondantemente prevedibile. Legato ad una struttura narrativa pressoché inesistente (al punto che finiscono per apparire scontati tutti i sedicenti colpi di scena), e funestato, nel tratteggio della psicologia (sic!) dei vari personaggi, da un tono di fondo che si vorrebbe discretamente ironico ma che riesce, alla fine, ad essere solo involontariamente comico, lo spettacolo si rivela dolorosamente inerte anche per quelle scene d’azione che potrebbero, da sole, giustificare la spesa del biglietto. La formula produttiva messa in atto per la realizzazione di questo ennesimo prodotto seriale è, in tutto e per tutto, figlia di un sistema spettacolare che, mai come in questi ultimi tempi, sembra versare in uno stato di crisi irreversibile. Di fronte all’atavica e ormai inveterata incapacità del cinema americano di propinarci qualcosa di veramente nuovo, i produttori di quello che un tempo era il buon vecchio film di puro e semplice intrattenimento limitano, ormai, la propria azione all’ibridazione e al rimescolamento dei vecchi generi cinematografici in cerca non tanto di idee quanto, piuttosto, di possibili combinazioni capaci di risultare gradevoli per fette sempre più eterogenee e vaste di pubblico. In alcuni casi (e questo lo si vede molto nel campo della commedia, meno impermeabile del film drammatico a possibili salti di tono derivati da accostamenti inusuali) il lavoro si consuma tutto nella logica del casting con soluzioni a prima vista (e troppo spesso anche ad una seconda o terza visione) fasulle (un caso su tutti: Adam Sandler messo a fianco di Jack Nicholson). Altrove il discorso si precisa, invece, nella riattualizzazione di vecchi stereotipi narrativi calati in contesti nuovi con la produzione di pellicole dal sapore più spiccatamente manierista. Il caso de ll Monaco è, per certi versi, una via di mezzo tra queste due tendenze perché pone al centro del proprio discorso proprio un inusuale accostamento di cast (il buon monaco buddista interpretato da Chow Yun-fat, star indiscutibile ed ormai mitica di molto cinema hard boiled dell’estremo oriente e il giovinastro interpretato dall’ex American pie Sean William Scott), ma in realtà tale accostamento deriva da esigenze drammaturgiche prima che da considerazioni divistiche. In altre parole alla base del discorso c’è essenzialmente il bisogno di fondere in un unicuum compatto due particolari filoni cinematografici (commedia adolescenziale metropolitana e, in misura molto maggiore, film d’arti marziali) e gli attori vengono chiamati in causa non per la loro specifica riconoscibilità personale, ma per la loro appartenenza ad uno concreto immaginario di genere. Chi va al cinema per vedere questo film, insomma, non ci va tanto per seguire il suo attore preferito, ma perché attratto da un prodotto che si offre allo sguardo in maniera volutamente ambigua. Ed è proprio questa ambiguità perseguita con pertinacia a costituire, alla fine, il motivo principale del fallimento di un’operazione che già sulla carta sembrava fare acqua da tutte le parti. Iniziatosi con un prologo tibetano che, già da solo, fa gridare vendetta (i cattivi sono nazisti della seconda guerra mondiale, ma la strage iniziale non può non far tornare alla mente, in maniera ben più diretta, l’orrore dell’occupazione cinese che viene colpevolmente rimossa per tutto il corso del film), la pellicola inanella una serie di situazioni già abbondantemente usurate che passano dal primo episodio di Indiana Jones per arrivare a La tigre e il dragone. Che la saggezza sapienzale implicita nelle arti marziali venga ridotta al ruolo di frasi da cioccolatino lo possiamo ben accettare in un film volutamente di genere, ma forse proprio la rimozione dell’occupazione cinese del Tibet può trasformarsi, per noi, in un pungolo a porci una domanda che potrebbe farsi presto urgente: non è che magari gli americani, difensori totali della libertà duratura del mondo civile, abbiano paura di alimentare, tra le proprie stesse fila, un complesso di colpa latente? Non è che, forse, abbiano timore, dopo le guerre preventive che non riescono a vincere, di lasciar detto in un film di svago come siano stati capaci di non muovere un dito, anche se il loro aiuto è stato più volte invocato, quando ad essere sterminati erano solo dei pacifici monaci sperduti in monasteri himalayani? Probabilmente quando (e se) la Cina entrerà nel novero degli stati canaglia, questa rimozione, ancora oggi valida, potrà lasciare il posto alla bolsa retorica militarista.

(Bulletproof Monk); regia: Paul Hunter; sceneggiatura: Ethan Reiff, Cyrus Voris; fotografia: Stefan Czapsky, Anthony Nocera; montaggio: Robert K. Lambert; musica: Eric Serra; interpreti: Chow Yun-fat, Sean William Scott, Victoria Smurfit; produzione: Douglas Segal, Terence Chang, John Woo, Charles Roven; distribuzione: 01 distribution

[agosto 2003]

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