Il muro

Alla regista Simon Bitton potrebbero ben adattarsi le parole che Thomas Mann fa pronunciare ad uno dei suoi personaggi più autobiografici: “Io sto tra due mondi, in nessuno sono di casa”. Forte, infatti, della sua doppia cittadinanza (sia francese che israeliana), posta in una franca posizione intermedia tra il mondo musulmano e quello ebreo, la regista ha certamente un punto di vista ideale per comprendere al meglio le dinamiche storiche del conflitto medio orientale in Palestina.
In Mur, la Bitton mette in campo una riflessione di grande lucidità intellettuale sulla difficile convivenza tra cultura ebraica e araba centrando completamente il proprio discorso sulla costruzione di quel muro da molti giustamente definito aberrante che diventa simbolo vivente di un vero e proprio tentativo di separazionismo razziale e culturale in nome della pace (ma quale pace può mai venir fuori dalla divisione e dall’incomprensione incarnate dal muro stesso?).
La regista ha mano felice nell’evidenziare la contraddizioni di un progetto di tale portata e le restituisce all’interno di un percorso filmico che concentra la sua attenzione proprio sull’aspetto umano della convivenza tra i popoli. Non, quindi, l’astratto della Teoria politica (efficacemente restituita dalla figura grottesca del rappresentante israeliano intervistato strategicamente posto dietro la superficie asettica di una scrivania ed incorniciato dal bianco di due bandiere israeliane vuote ed inerti), quanto piuttosto il concreto dell’esperienza della vita quotidiana.
Secondo un modello del pedinamento insistito tipico dei reportage giornalistici d’assalto, Simon Bitton insegue i mille racconti dei tanti testimoni della costruzione del muro, pone domande dirette sulla presunta utilità di questo ennesimo monumento della stupidità umana e scopre, tra le righe delle storie comuni di persone che hanno paura anche ad attraversare la strada o a prendere un autobus, la possibilità concreta di una reciproca convivenza.
Impossibilitata, spesso, a riprendere le persone che sta intervistando per ovvi motivi politici, la Bitton fa di necessità virtù e crea una netta separazione tra la dimensione visiva e quella sonora del documentario. Sicché mentre ascoltiamo le voci e le storie di persone comuni l’immagine ci catapulta con forza nell’impersonalità delle macchine che sono intente alla costruzione del muro. In questo modo la divisione culturale operata dal muro finisce per trovare un preciso correlativo stilistico nei modelli comunicativi messi in atto (una dimensione che assume valore metaforico nel breve episodio della telefonata tra ebrei e musulmani a pochi metri di distanza gli uni dagli altri).
Proprio in questa dimensione distorta, in questa vera e propria violenza operata dal muro allo spazio e al territorio (non ci viene permesso di dimenticare l’enormità dell’impatto ecologico del muro sull’ambiente circostante) riposa la segreta poesia di questo bel documentario giustamente vincitore del concorso Pesaro Nuovo Cinema nel 2004. Per questo la macchina da presa indugia tantissimo in immagini del muro seguendone il percorso con dolenti carrellate, arrestandosi impotente, ma rabbiosa di fronte all’ostacolo visivo (ma non solo) che esso rappresenta.
Un’opera intensa, insomma, che ha il valore di un documento di passione civile la cui visione andrebbe imposta nelle scuole, ma che rappresenta, al tempo stesso, anche la speranza di un prossimo auspicabile cambiamento della situazione sociopolitica israeliana.
(Mur); regia: Simon Bitton; fotografia: Jacques Bouquin; montaggio: Catherine Poitevin-Meyer, Jean Michel Perez; musica: Gilad Atzmon, The Orient House Ensemble, Rabih Abu-Khail; produzione: Cine-Sud Promotion, Arna Productions; origine: Francia, Israele 2004
