Il nascondiglio

Una casa maledetta, una donna inseguita dai fantasmi del passato e persa a metà tra terrore e nevrosi, un mondo (quello della provincia americana) in bilico tra la ragionevolezza del mondo contemporaneo, nelle sue rassicuranti tecnologie, e il ricordo di un tempo in cui tutto era dominato dalla magia e dai rituali: questi gli ingredienti dell’ultimo film di Pupi Avati.
Una pellicola che è anche una sorta di ritorno alle origini per l’autore di La casa dalle finestre che ridono, il recupero di un passato “di genere” che non è mai stato rinnegato nemmeno nel periodo delle placide commedie sul tempo passato, neanche nei momenti delle storie minimali di ragazzi e ragazze di un’Italia passata, rurale, arcaica e anche un po’ vera. Quel passato di storie di spavento e di terrore, anzi, si ha l’impressione che se ne sia stato per un po’ a dormicchiare sotto qualche metro della terra di Zeder. E che ora, come un ritornante di baviana memoria, si alzi, un po’ caracollante, col desiderio di incutere spavento ad una platea che nel frattempo è, però, molto cambiata.
Sono passati, infatti, i tempi in cui per far paura bastavano un paio di canini allungati e qualche fremito d’oltretomba. Lo spavento di oggi passa per i portali di Internet, si insinua tra le suonerie dei telefonini, percorre le autostrade maestre delle infezioni che fanno strazio dei corpi. Hanno bisogno del turbinio di pixels delle playstation che tutto riconducono ad un gioco spaventoso quanto si vuole, ma pur sempre virtuale.
Il pubblico di oggi è abituato al soprassalto e alle botte di adrenalina. Tende ad annoiarsi se messo di fronte all’inquietudine e al mistero. Non accetta che non gli si diano subito risposte semplici. E se semplici devono essere, che almeno consegnino all’antologia del genere buone sequenze di raccapriccio e di nausea (gli estremi esiti dello slasher).
È passato anche il glorioso periodo degli anni ’70 ed ’80 quando l’horror sapeva essere politico, sociale incisivo. Quel che resta adesso se non è giapponese (ma anche questo periodo si esaurisce negli ultimi capolavori di Kurosawa Kyoshi) è mero esercizio di stile: niente più che un gioco forte per creare spaventi poco duraturi.
In tutto questo clima un film come Il nascondiglio ci sta proprio male. La sua sofferenza è il non trovar casa da nessuna parte, in nessuno dei filoni del genere di riferimento. Non è slasher, ma non è neanche reale horror psicologico (per la psicologia ci vuole ambiguità, nel film tutto è chiaro fin dalle prime inquadrature), non gioca con gli archetipi della fiaba e neanche riflette sugli orrori del mondo contemporaneo. Più che un esercizio di cinema e per il cinema è, come quasi tutto l’ultimo Avati, un esercizio letterario costruito sulle pagine dei libri.
E questo in fondo è davvero un peccato perché la mano di un regista che conosce il suo mestiere c’è. Epperò che senso ha oggi costruire un horror (che è più un thriller) tutto intessuto di voci e bisbigli, di suoni destabilizzanti che vengono dal cuore della casa (o della mente?) e musiche stranianti? Che significato ha l’ambientazione americana che promette riflessioni sul mondo contemporaneo (che è tutto americano ormai) e si risolve, invece, solo in uno sfondo fuori fuoco di una vicenda che è tutta interiore?
Diciamoci la verità, una volta per tutte e per quanto faccia male! Il problema di fondo di Il nascondiglio è lo stesso di tutto il cinema di Avati da I cavalieri che fecero l’impresa in poi: il dubbio logorante sulla sua reale necessità.
Avati è un grande autore. Lo è stato certamente al tempo dei suoi esordi come ha continuato ad esserlo (ed è un gran merito) nello spento grigio degli anni ’80 del nostro cinema. Ha mano ferma e senso del racconto. Ha un gusto musicale che spesso lascia ammirati e profondamente grati. Eppure i suoi film tendono per lo più a rimanere solo “suoi” quasi fossero un discorso che l’autore intesse solo con se stesso, ignaro o quasi di quel terzo incomodo che paga il biglietto per entrare nel cinema e quel discorso se lo trova davanti. Non hanno più un pubblico di riferimento. E, in fondo, hanno davvero poco da dire. Invecchiano consapevoli di invecchiare, ma incapaci a fermare il loro perpetuarsi a cadenza annuale. Sono “novelle” costruite con sicura maestria e con un gusto letterario che è spesso un po’ datato, ma sempre efficace. E scivolano via, alla fine, tanto tanto in fretta. In un soffio che, però, resta sempre lungo almeno un’ora e mezza.
(Il nascondiglio); Regia: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati, Francesco Marcucci; fotografia: Cesare Bastelli; montaggio: Amedeo Salfa; Cesare Bastelli; musica: Riz Ortolani; interpreti: Laura Morante (Lei), Burt Young (Mueller), Treat Williams (Padre Amy), Rita Tushingham (Paula Hardyn), Giovanni Lombardo Radice (Vincent), Yvonne Broulatour Sciò (Ella Murray), Cesare Cremonini (L’amico pazzo); produzione: Duea Film, Motion Pictures Midwest; origine: Italia/USA, 2007; durata: 100’; webinfo: Sito ufficilae
