Il piacere della dissonanza nel cinema dei Fratelli Coen

A cercare tracce di postmodernismo (prima o poi si dovrà pure capire bene che cosa si intende quando si usa, spesso a sproposito, tale termine) si potrebbe restare delusi affrontando la visione di True Grit. Il perché è semplice da spiegare. Che ci si trovi davanti ad un rapporto di filiazione diretta (remake) o di semplice ispirazione con l’omonimo film del 1969, a firma Henry Hathaway, che valse l’oscar a John Wayne, l’impianto del film dei Coen non si allontana poi così tanto da quello classico e classicheggiante dell’epopea western. Di certo la chiave ironica, da sempre motore del cinema dei due fratelli, non manca di ostentare la sua presenza, specie in netto e palese contrasto con la cornice “biblica” che fa da sfondo alla pellicola. Per il resto il film sfodera le armi migliori della coppia d’autori già messe in mostra, pur con le dovute differenze, in quel No Country for Old Men che lambiva e corteggiava il medesimo genere.
True Grit affascina con quel suo moto regolare e privo di impennate che richiama i lavori migliori dei Coen. Perché, a ben guardare, il cinema dei fratelli di Minneapolis, o almeno quello secondo noi più interessante, non ha mai estratto la sua forza da vorticosi cambi di ritmo quanto, piuttosto, dalla consapevolezza feroce di una narrazione costante, talmente solida da prendersi gioco del tempo che passa sullo schermo.
Proprio per questo il gioco non sempre riesce perfettamente e se voltandoci indietro scorgiamo lavori divenuti culto come Barton Fink, il sempre immortale Fargo, lo sconclusionato The Big Lebowski, l’incompreso O Brother, Where Are You?, il raffinato The Man Who Wasn’t There (e ci scusiamo per quelli non inseriti nell’elenco), capita anche di restare interdetti davanti al noioso The Ladykillers o agli incompiuti Burn after Reading o A serious man.
Se la fiducia cieca che i due registi hanno nella loro scrittura viene ripagata il risultato, quindi, non può che essere più che soddisfacente perché pochi autori riescono con così grande disinvoltura a creare “personaggi” sui volti e sulle movenze dei loro attori. Quando, al contrario, la sceneggiatura non possiede argini poderosi a sufficienza per mantenere sotto il livello di guardia l’arroganza intellettuale della coppia, i risultati lasciano piuttosto freddi se non proprio delusi. Non si realizza quella simbiosi tra testo ed interpreti in grado di assecondare e svelare la moltitudine di sfumature che da sempre appartengono ai Coen.
Registi, sceneggiatori e montatori impossibili da circoscrivere all’interno di un genere. Piuttosto, abili autori in grado di maneggiare concetti limite e pericolosi come quelli di ibridazione e contaminazione. La scelta, quindi, di rispettare, più o meno consapevolmente, la maestosa ed ampollosa retorica del western nel caso di True Grit, almeno nella sua costruzione visiva, se da un lato spiazza perché era forse lecito immaginarsi una operazione più invasiva, dall’altra, proprio per questa “stonatura” all’interno della cinematografia della coppia, affascina.
Affascina l’ampio spazio concesso allo sguardo, al paesaggio che echeggia la leggenda del west, alle dinamiche entro cui circoscrivere i confini di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Affascina anche la creazione di maschere che poco hanno a che fare con la corrosività, fisica ancora prima che emotiva, cui siamo abituati. Il volto di Jeff Bridges (o la sua straordinaria voce andata in fumo nel doppiaggio italiano) non diventerà icona come quello di Javier Bardem in No Country for Old Men o di John Turturro in The Big Lebowski. Il volto di Jeff Bridges resta impresso nella memoria perché straordinariamente calzante con la storia e le atmosfere raccontate, come perfetta sintesi tra dannazione e riabilitazione.
Forse True Grit rappresenterà per i Coen un definitivo distacco dal loro amore per tutto ciò che possiede e rivela una genetica dissonante o, più probabile, sarà un capitolo in più, a mio avviso perfettamente riuscito, in una filmografia che non si stancherà mai di ostentare la sua natura “schizofrenica”.

NELLA STESSA RUBRICA
-
Intervista al direttore della fotografia FEDERICO ANNICCHIARICO
-
OSCAR 2021: vincitori e vinti
-
Un artigiano della luce - Intervista a Daniele Ciprì
-
Ri-tratto Rosso. Una mostra felliniana per eccellenza.
-
L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE: INTERVISTA AL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA VALERIO AZZALI
TUTTI GLI ARTICOLI
