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Il ponte delle spie

Pubblicato il 16 dicembre 2015 da Alessandro Izzi
VOTO:


Il ponte delle spie

C’è qualcosa di sublime nel modo con cui Steven Spielberg occupa il suo posto dietro la macchina da presa.
Qualcosa che resta nei dettagli minuti, che si appiccica alle piccole cose, che accarezza gli spazi dentro e fuori l’inquadratura e che riempie di senso anche le scene minori o i semplici momenti di raccordo.
Qualcosa che dona calore alle minuzie della ricostruzione storica, che fa respirare i costumi come fossero cose vive e che è leggero come il tocco di pennello di un pittore che firma ogni fotogramma quasi fosse un quadro.
Qualcosa che passa in mezzo ai personaggi e dona loro l’ombra di un palpito che fa anima al di là delle non sempre brillantissime sceneggiature (e Il ponte delle spie, malgrado anche la firma di Joel ed Ethan Coen, benché compatta e solidamente di genere, non ci sembra sempre del tutto inattaccabile).
Questo qualcosa va al di là del semplice narrato e al di là del mestiere consolidato che lo restituisce. Piuttosto resta nello sguardo come un’impressione, come un riverbero, come un continuo rimando di disperante incertezza.
Ed è l’impressione che tutta la mastodontica bellezza del Creato sia sempre lì lì per essere inghiottita dal non senso, che il nostro essere al mondo sia sul crinale di una frana, pronto a scivolare giù nella barbarie della fine di ogni cosa. E che l’unica, necessaria forma di opposizione a questa continua tensione al nulla sia da ricercarsi in cose piccole, come l’affetto familiare o il rispetto di quelle leggi che ci siamo scritti, che ci fanno uomini e che non sempre sappiamo rispettare, soprattutto quando abbiamo paura.

In fondo James Donovan, l’avvocato di questo splendido film spionistico, lo ribadisce a chiare lettere: all’interno di uno scontro di civiltà com’era quello che vedeva contrapposti il blocco americano a quello sovietico durante la guerra fredda, l’unico modo per non soccombere (che non è la stessa cosa che vincere) è quello di restare se stessi, ancorati alla concezione dello Stato di diritto, capaci di mantenere inalterati i valori fondanti del proprio retaggio culturale.
Si potrebbero immaginare temi più sorprendentemente attuali di questi per un film che paradossalmente affonda gli occhi in uno dei momenti più tortuosi e difficili del nostro passato più recente?

Quando negli Stati Uniti Rudolf Abel viene arrestato perché sospettato di spionaggio, la difesa al processo viene assegnata a James Donovan esclusivamente per una questione di immagine. L’intenzione dello studio legale che si accolla il compito ingrato di difendere una persona già condannata dall’intera opinione pubblica è semplicemente quella di dare l’impressione che, in rispetto ai valori costituzionali, lo stato si assuma l’onere di garantire un processo quanto più possibile ben fatto. Con il migliore sulla piazza. Uno che ha brillato a Norimberga anche se, negli ultimi anni, è stato impegnato per lo più nel ramo assicurativo.
Dovrebbe essere un processo farsa, di quelli che durano il tempo di leggere una sentenza già scritta e, invece, James non ci sta. Trova vizi di forma nelle modalità dell’arresto e incertezze procedurali a ogni passo. Sostiene la sua difesa, malgrado la cosa lo renda sommamente impopolare, sottolineando come non si possa procedere contro uno straniero processandolo per alto tradimento. Prova quasi ammirazione per quest’uomo che nemmeno nega troppo di essere per davvero una spia perché si comporta con onore, anche se sta dall’altra parte della barricata.
Però, malgrado ogni sforzo speso per la causa, il processo ha un esito scontato. La vittoria dell’avvocato è quella di evitare la sedia elettrica, ma Abel resta in vita soprattutto come possibile uomo da scambiare qualora i comunisti catturino qualche spia americana.
Risultato, questo verdetto, di una felice intuizione da assicuratore che si rivela presto concreta dal momento che un soldato (e poi anche uno studente americano che si trova dalla parte sbagliata del muro quando si mettono gli ultimi mattoni) viene preso e lo scambio deve essere organizzato.

Spielberg usa questa storia come filigrana chiara per leggerci in trasparenza i nostri tempi bui. Parla ancora, con una forza resa salda da una saggezza che non diventa più grido, di questioni fondanti come libertà, diritto, rispetto dell’altro.
Lo fa con un film solido e potente che scontenterà tanto i fan di E.T. che ancora bramano il regista fanciullino, quanto gli estimatori di Lincoln.
Ma Spielberg ormai è giunto in una sorta di stato al di là del bene e del male. Sente di non dover fare film per dimostrare qualcosa al suo pubblico (l’incubo di Star wars, ad esempio). Tantomeno deve dimostrare qualcosa a se stesso.
Lui semplicemente fa i film che vuole. Racconta le storie che gli riverberano nel cuore e nella mente in una perfetta simmetria di sentimenti e idee. E ha raggiunto una maestria che ha la grazia consumata dei classici .

A questo punto della sua carriera Spielberg non potrebbe fare film sbagliati nemmeno se volesse. E resta uno dei pochi fari di autentico umanesimo di cui sarebbe un delitto non fare tesoro per gli inverni che bussano alle porte del nostro scontento.
Non fosse altro per quell’epilogo superbo dei bambini che saltano un cancello e il nostro cuore resta indietro, con un senso di sgomento, ad altri salti e ad altri orrori.
Magnifico monito al non dimenticare neanche nello sciogliersi del lieto fine, quando si accendono le luci di sala e sta a noi, e solo a noi, tirare le ultime somme del destino di noi tutti.


CAST & CREDITS

(Bridge of Spies); Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Matt Charman, Joel Coen, Ethan Coen; fotografia: Janusz Kaminski; montaggio: Michael Kahn; musica: Tomas Newman; interpreti: Tom Hanks, Billy Magnussen, Amy Ryan, Alan Alda, Eve Hewson, Domenick Lombardozzi, Austin Stowell, Mark Rylance, Sebastian Koch, Michael Gaston, Peter McRobbie, Doris McCarthy, Jon Donahue, Stephen Kunken; produzione: DreamWorks SKG, Marc Platt Productions, Participant Media, Studio Babelsberg; distribuzione: 20h Century Fox; origine: USA, 2015; durata: 141’


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