Il primo respiro

La nascita di un essere umano segna l’attimo per eccellenza della vita, la parentesi in cui anche il tempo sembra bloccarsi di fronte ai miracoli che la natura offre in dono ai propri figli. La magia sprigionata dall’istante del parto è qualcosa di assolutamente indefinibile, al cui interno vivono emozioni contrastanti e deliranti, talvolta in conflitto tra loro ma la cui fusione produce sempre e comunque l’estasi della mente umana. Difficile che un mezzo come il cinema abbia la capacità di fornire attraverso i propri strumenti la spiegazione assoluta di questa estasi. Al massimo può aspirare ad una rappresentazione quanto più possibile accostabile all’unicità del momento. Questo sembra essere chiaro al regista francese Gilles de Maistre, il quale con la sua nuova opera tenta di restituire, attraverso uno sguardo modesto, composto ed un approccio partecipativo, la reazione che accompagna il fenomeno complesso ed emozionante della procreazione umana. E il risultato non poteva che essere raggiunto con il linguaggio a lui più congeniale: quello del documentario.
Ispirato da una inchiesta giornalistica, Il primo respiro è un progetto molto consistente e difficile, realizzato in circa tre anni di tempo grazie al lavoro e all’impegno di un gran numero di persone, tra cui un cospicuo gruppo di ricercatori ed informatori mai visto prima in un documentario del genere. Lo sforzo profuso alla realizzazione del film è evidente e traspare chiaramente dallo schermo grazie alla forma stessa dell’opera. Divisa in più blocchi tra loro intrecciati, il documentario racconta infatti tante microstorie sparse in giro per il mondo; storie di nascite, tutte diverse tra loro ma con un unico elemento che le tiene involontariamente unite: la simultaneità dell’evento. E’ il 29 marzo del 2006, un giorno come un altro se non fosse per l’eclissi solare che in cielo attira l’attenzione degli esseri umani. Per molti di questi la vita continua durante l’evento atmosferico, per altri invece quest’ultimo non è nemmeno visibile. Questione di latitudini e longitudini differenti. Per i protagonisti, però, c’è qualcosa di ancora più importante a scandire le ore della giornata: l’imminente arrivo di un bambino. Luce o non luce, sole o non sole, quindi, è arrivato il momento di nascere per dei piccoli esseri umani e tutto nei diversi angoli del mondo si predispone all’evento. La comunità Masai prepara la capanna in cui Kokoya partorirà lontano da occhi indiscreti; in Vietnam, nel reparto maternità più grande al mondo, una donna si appresta a partorire con taglio cesareo; negli Stati Uniti invece Vanessa e Mikael si preparano ad affrontare le difficoltà di un parto non assistito, da consumarsi in privato davanti ai propri cari e lontano dalla medicina ufficiale. A questi casi poi se ne aggiungono tanti altri, sempre differenti e soprattutto lontani tra loro. Quello di Manè ad esempio, donna tuareg in procinto di partorire in pieno deserto, nel buio della sua capanna; o quello di Gaby e Pilar, due messicane decise a mettere al mondo i propri piccoli tra le acque dell’oceano (la prima) e in una vasca di delfini (la seconda); o ancora Majtonrè, indiana kayapo, destinata a partorire il suo terzo figlio tra mille sofferenze e grazie alle cure delle levatrici del villaggio. Tante storie, tanti comparti narrativi che non soffrono le continue collisioni messe a punto appositamente dal regista. Funzionam, infatti, la struttura orchestrata da de Maistre, in cui una storia sale e l’altra scende, una si spegne definitivamente e l’altra compare dietro l’angolo. Tutto sembra svolgersi secondo un meccanismo ben calibrato in cui le storie in primo piano non superano mai le tre o quattro per volta e in cui la visione non soffre di alcuna confusione, sovrapposizione o sovrabbondanza di informazioni. La bravura del francese si misura proprio sul bilanciamento dell’opera, sempre rigorosa, misurata, mai eccessiva. Il suo tocco si dimostra leggero e lo sguardo, nonostante superi in molte occasioni i confini dell’intimità, non sembra mai essere invasivo o irriverente. Il suo è un cinema contaminato che invece di fornire una sola immagine della realtà documentata tenta di comporre un mosaico di figure allo stesso tempo simili e distanti. Un cinema dinamico quindi, nel contenuto ma anche nella forma, in cui la messa in scena non risponde ad una rigida impostazione stilistica, bensì si adatta in corso d’opera alle esigenze drammaturgiche della storia stessa. Il film, infatti, ha la capacità e la peculiarità di cambiare registro continuamente, alternando alla storia delle nascite, in cui l’autore sembra privilegiare un forte spirito antropologico ed una spiccata propensione all’osservazione, le storie della nascita, in cui il lirismo diviene il fil rouge di un discorso molto più pretenzioso ed elevato. Ed è proprio questo aspetto al contempo grezzo e puro, basso ed alto, in cui si mescola il particolare con l’universale a costituire probabilmente il segreto di un film emozionante, poetico e molto riflessivo. Queste pause continue, in cui lo spettatore si distanzia per pochi attimi dalla tensione del parto raccontato sullo schermo, permettono al film di respirare, al discorso di raggiungere un livello che supera la semplice documentazione e allo spettatore stesso di alleggerire una visione che, soprattutto nella seconda parte dell’opera, diviene più stanca e difficile. Forse a causa dell’eccessiva lunghezza del documentario, forse per la presenza di due o tre casi di parto di troppo che non spostano più di tanto gli equilibri dell’opera. Casi inconcludenti quindi che, solo con la loro presenza, sembrano intralciare la continuità comunque compiuta di un film nel complesso decisamente apprezzabile.
(Le premier cri) Regia: Gilles de Maistre; soggetto e sceneggiatura: Gilles de Maistre, Marie-Claire Javoy; fotografia: Gilles de Maistre; montaggio: Marie Quinton; musiche: Armand Amar, Paul & Louise; produzione: Mai Juin Productions; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia; durata: 99’; web info: http://www.luckyred.it/ilprimorespiro/.
