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Il quarto tipo

Pubblicato il 25 gennaio 2010 da Marco Di Cesare


Il quarto tipo

Perlopiù Il quarto tipo rappresenta una continua esibizione di se stesso, nonché della doppiezza che costituisce il suo fondamento e che lo fa rimanere a metà del guado, tra il coraggio e la vigliaccheria cinematografiche. Il film del poco più che trentenne Olatunde Osunsanmi è infatti diviso tra la riscoperta di un passato oscuro, attraverso la visione di documenti audiovisivi portati finalmente alla luce, e una riproposizione di questi ultimi attraverso una loro messa in scena senza alcuna remora, utilizzando taluni cliché e rivisitandone altri, giocando tra il campo e il fuoricampo, giungendo a suscitare il terrore e lasciando l’orrore alle questioni che vuole sollevare, tentando di intraprendere una strada che gli sia propria tra le tante già (di)battute da tanti altri prima di lui.
Immediatamente, nel prologo, si verrà gettati nella mischia – anzi, di fronte alla mischia, a quella cioè che si rivelerà come un magma pulsante di informazioni - quando Milla Jovovich si esibirà affermando di stare interpretando la storia vera della psicologa Abbey Tyler, la quale, nell’ottobre del 2000, attraverso delle sedute di ipnosi con alcuni abitanti di una cittadina della Alaska più isolata, Nome, scoprirà verità inquietanti su persone rapite, per una notte, da intelligenze extraterrestri, persone che hanno quindi vissuto un cosiddetto incontro del quarto tipo. Una storia, ribadisce la Jovovich così come lo stesso regista, cui si può credere oppure no. Col regista che interverrà più volte intervistando la vera Abbey Tyler.
Gioca con la falsità, Il quarto tipo, più che con la verità, pur prendendosi maledettamente sul serio, almeno in apparenza. Qui non si parla sempre attraverso una voce asciutta come quella, a esempio, dell’immenso Non aprite quella porta. Qui da una parte si abbatte quella quarta parete che è lo schermo cinematografico, mentre dall’altra se ne innalza una ancora più spessa. E l’intera pellicola è una ricostruzione nel vero senso della parola, così come viene sottolineato dall’utilizzo pressante dello split screen, col fine di porre l’uno accanto all’altro il passato e il presente, ossia quella che sembrerebbe essere la verità registrata da un macchinario impassibile e la ricostruzione di un (im)possibile a re-immaginarsi. E in tale modo in una delle prime sequenze, quella che introduce veramente alla vicenda come è narrata in quella grande finzione che è il cinema, si assiste alle sedute di ipnosi che si susseguono l’una di seguito all’altra, rivelando tutte un tratto comune che è un ricordo sepolto nella mente, mentre la regia realizza delle ellissi temporali grazie ad alcune semplici panoramiche destra-sinistra e sinistra-destra, l’una di seguito all’altra, in un apprezzabile gioco che si compiace di un’economia dello sguardo. Però già in questo ripetuto movimento di macchina risiede il segno, il principio del solco nel quale a tratti si affosserà l’intero film, che un po’ si scaverà la tomba da solo, a causa della sua insistenza nell’esibirsi tra due estremi, fin dall’inizio toccando la sottolineatura spasmodica, in particolare per quando riguarda la sfera musicale, abbandonando così più volte l’indipendenza di uno sguardo che tenda al diminuire per sposare invece la dipendenza dalla Hollywood contemporanea.
Eppure Il quarto tipo riesce tuttavia a terrorizzare, mostrando, non mostrando e suggerendo, essendo altresì capace di inquietare una volta terminato lo spettacolo, in certi casi giocando sporco, giungendo fino alla vera e propria pornografia nell’ostentazione: ’pornografia’ in quanto esibizione insistita, ricostruzione e messa in scena di qualcosa a prima vista naturale attraverso modalità che più false non potrebbero essere, messe lì per gioco col fine di provocare l’eccitazione e/o lo sgomento collettivi. Come nel suo esempio massimo, un omicidio visto attraverso l’occhio della videocamera di una vettura della polizia, appena un po’ mitigato nei suoi istanti più duri. Un colpo molto basso, quasi più da snuff movie che da real tv, ma anche, forse, emblema di una volontà di restituire la realtà per quello che è stata e non solo attraverso la riproduzione del suo ulteriore simulacro cinematografico.
Quello che più colpisce di questo film però, al di là della sua pur semplice ricerca linguistica, è la totale assenza di speranza che si respira per tutta la sua durata, la totale disperazione di un esistere relegato in un anfratto claustrofobico, torturato da una discesa in un gorgo dove nessun grido, divenuto ormai disumano, potrà servire a salvarlo, a renderlo udibile, quando il suo occhio, rivolgendosi al cielo, potrà scorgere solamente il nulla di un mondo senza Dio. E a quel punto non si sa saprà più quale direzione scegliere, quando la vera (?) dottoressa Abbey Tyler implorerà di essere creduta: si dovrà allora confidare nelle persone o nel potere mistificatorio del cinema?


CAST & CREDITS

(The Fourth Kind); Regia e sceneggiatura: Olatunde Osunsanmi; fotografia: Lorenzo Senatore; montaggio: Paul Covington; musica: Atli Örvarsson; interpreti: Milla Jovovich (Abbey Tyler), Will Patton (Sceriffo August), Elias Koteas (Abel Campos), Enzo Cilenti (Scott Stracinsky), Corey Johnson (Tommy Fisher), Hakeem Kae-Kazim (Awolowa Odusami); produzione: Gold Circle Films, Dead Crow Productions, Chambara Pictures, Focus Films, Fourth Kind Productions; distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia; origine: USA, 2009; durata: 96’; web info: sito ufficiale.


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