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Il silenzio dell’Allodola

Pubblicato il 26 ottobre 2005 da Ramon Gimenez de Lorenzo


Il silenzio dell'Allodola

Dopo aver visto Nel nome del padre di Jim Sheridan ed essersi fatti un’idea vaga e romantica sulla situazione degli attivisti irlandesi nelle carceri inglesi, grazie al film di Ballerini, si ha la conferma che spesso, nel cinema di denuncia, ci si adatta a forti compromessi di stampo tipicamente Hollywoodiano. Il silenzio dell’allodola è un film duro, nei contenuti e nello stile, privo di compromessi, fastidioso a livello gastrico: sono ardue da recepire le scene in cui il protagonista, privato di abiti per scelta e di forme di igiene per imposizione, viene costretto a spalmare le sue feci lungo le pareti della cella per poterle smaltire. “La storia di Bobby Sands in verità è la storia di un uomo che è voluto diventare un mito, un martire morto per dichiarare la propria verità. Per questo ho posto tutta la vicenda al di fuori del mero contesto storico. Ovviamente ho lasciato dei parallelismi fra la sceneggiatura del film e la vicenda reale, perché anche il contesto storico ha la sua importanza, ma quello che volevo era andare oltre la Storia per dimostrare che esistono e sempre esisteranno corsi e ricorsi storici”. Con queste parole il regista non rimane indifferente, si schiera ed esprime il suo giudizio: Bobby Sands si trasforma in Giovanni Battista, ha un compagno di carcere che si chiama Andrea - come uno dei discepoli del Santo - e l’oppressore inglese diventa Erode. Le scene della prigione sono girate in una fabbrica dismessa nella quale Ballerini crea atmosfere cupe e opprimenti. Chiare sono le analogie tra oppressione britannica e nazismo. Dall’uniforme dei secondini che richiama quella delle truppe paramilitari SA, presenti all’inizio dell’ascesa di Hitler al potere, note per la loro crudeltà ed ingovernabilità, alla scritta all’ingresso del carcere ‘Arbeit macht frei’ che rimanda all’ingresso di Auschwitz. Non è un film che ha la presunzione di passare un messaggio ideologico. Prende lo spettatore per il colletto e lo sveglia dal torpore dell’assuefazione alla violenza. Vuole scuotere le coscienze, vuole lottare contro l’indifferenza presente al di fuori di questo ambiente asfissiante, come la puzza e la presenza degli escrementi che tutto infettano. Già nelle prime scene del film si delineano alcuni temi tutti strettamente connessi tra di loro attraverso un rapporto causa-effetto: la morte come unica via di salvezza, l’indifferenza del mondo alle sofferenze e all’ingiustizia, la libertà di pensiero che non può essere soffocata. “Imprigionare un’allodola, simbolo di felicità e libertà, è una cosa crudele”, afferma Franek in un monologo con un appassionante primo piano che apre il film. Poi l’inseguimento, la cattura e la prigionia. La storia, narrata guardando la macchina da presa, è quella dell’allodola in gabbia che si rifiuta di cantare ed anela alla morte come unica via di liberazione dallo stato di prigionia e vessazione nel quale vive. Dopo aver subito ogni sorta di sopruso, prega Dio di farla morire il più presto possibile. Il silenzio dell’allodola allora rappresenta la forma più alta di protesta ed affermazione della propria identità, delle proprie idee, dei propri diritti contro l’oppressione dell’aguzzino, sia esso il carceriere dell’allodola o di Bobby Sands. Alla memoria di questo irlandese è dedicato il film che racconta la fine della vita di questo prigioniero politico morto in carcere nel 1981 in seguito ad uno sciopero della fame indetto contro le torture carcerarie e portato avanti per sessantasei giorni. In quegli anni Londra non riconosceva ai carcerati dell’Ira lo status di prigionieri politici, ma di detenuti comuni. Così Bobby e gli altri mettono in atto la loro protesta rifiutando di indossare la divisa dei normali carcerati e, nonostante il freddo - i riscaldamenti venivano sadicamente spenti in inverno ed accesi in estate - scelgono di restare nudi. Tempi e luoghi sono una via di mezzo tra fiction e docu-film. La macchina da presa si muove con stupore all’interno di questo vero e proprio mattatoio per esseri umani. Il concetto di uomo scompare sotto i colpi dell’indifferenza che annulla la dignità. Bravo il protagonista, Ivan Franek, divenuto ormai un vero e proprio tormentone cinematografico dopo Brucio nel vento di Soldini, Provincia meccanica di Mordini, Vodka Lemon di Salem e Sulla mia pelle di Jalongo. Con i suoi tratti, i suoi occhi profondi e sofferenti è perfetto per la parte, ma viene supportato anche dal bravo Flavio Bucci nei panni dell’inflessibile e cinico direttore del carcere. Poeta, musicista e autore di racconti, Bobby Sands ci ha lasciato alcuni scritti dal carcere tra cui un diario di prigionia che rappresenta una straordinaria dimostrazione di come l’anima di un uomo possa mantenersi libera anche di fronte alle più mostruose condizioni di privazione fisica. “Ho provato a tirar fuori l’essenza mitica e simbolica del martire - spiega Ballerini - ispirandomi a un personaggio emblematico come il Battista, che è ‘figura christi’ per eccellenza”.

(Ottobre 2005)

Regia: David Ballerini; Interpreti: Ivan Franek, Marco Balliani, Flavio Bucci, Anna Maria Gherardi, Roberto Ceccacci; Produzione: Esperia Film; Distribuzione: Revolver; Sceneggiatura: David Ballerini; Soggetto: David Ballerini; Fotografia: Lorenzo Adorisio; Musiche: Daniele Lombardi, Giorgio Vacchi; Montaggio: Alessio Focardi; Scenografia: Marianna Sciveres; Costumi: Marianna Sciveres; Origine: Italia, 2005; Durata:96’

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