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Il tempo che ci rimane

Pubblicato il 3 giugno 2010 da Antonio Valerio Spera


Il tempo che ci rimane

Difficile non innamorarsi di un film come The Time that Remains. E’ il classico film imperfetto, a tratti troppo lento, troppo personale, forse eccessivamente dilatato nella prima parte, ma che piano piano entra nel cuore, emoziona e sale nella mente. E’ un’opera che fa riflettere, che con grazia sbatte in faccia allo spettatore le problematiche sociali di oggi, che tratta con ironia la tragica situazione politica ed umana che vige tra Israele e Palestina, che ritrae la vita quotidiana di quei palestinesi che sono rimasti nella loro terra come minoranza.
Ieri e oggi si fondono, i ricordi e la loro rielaborazione rappresentano la materia del testo filmico, la soggettiva dell’autore racconta la storia del suo popolo attraverso quella della sua famiglia. C’è tanto autobiografismo in nell’ultima opera di Elia Suleiman: c’è amore e c’è tanta tristezza, c’è paura e speranza. E tutto questo appare racchiuso nello sguardo perso dello stesso attore/regista, protagonista silenzioso del film. Il regista, che nell’ultima parte del racconto recita dunque la parte di se stesso, è il corifeo muto delle vicende, colui che osserva e commenta, ma senza proferire parola. Il suo viso ed i suoi occhi hanno sempre la medesima espressione, impalpabile, immobile, che non lascia trasparire nessun sentimento, ma solo rassegnazione alla drammatica consuetudine della realtà del suo popolo.
L’opera è interamente costruita in flashback ed appare evidentemente divisa in due parti: la prima che ripercorre la vita del regista e della sua famiglia, in cui indirettamente viene narrata anche la storia del popolo palestinese; e la seconda, ambientata al giorno d’oggi, dove entra in scena l’attore Suleiman. In quest’ultima parte cambia radicalmente la natura del racconto che, da storica, si fa interiorizzata e diventa riflessiva. L’opera è ricca di trovate, di invenzioni, di metafore, di sogni irrealizzabili plasmati in immagini (Suleiman che salta con l’asta il muro dell’odio che divide ebrei e palestinesi). Se nella prima parte la narrazione è leggermente appesantita da troppe reiterazioni di eventi, da situazioni ciclicamente riproposte che rendono l’idea della monotonia della vita del luogo, la seconda invece è più creativa e più veloce e Suleiman la impreziosisce della sua presenza alla Buster Keaton.
La regia non offre molto visivamente ma, con una forma quasi da film muto, preferisce dare ritmo interno alla rappresentazione, costruendo le situazioni sulle azioni dei personaggi, spesso disorientati, confusi, spaesati, a volte assurdi e surreali. La forza dell’opera risiede proprio nella sua semplice costruzione, che però nasconde un sostanzioso ed importante sottotesto di riflessione politico-sociale, facendosi pura arte. Ma soprattutto ciò che la indirizza dritta al cuore dello spettatore è l’ironia malinconica che la pervade ed il suo rimanere in equilibrio tra realismo e soggettività dell’autore.
Ed il modo di comunicare di Suleiman, con il suo sguardo e di suoi gesti appena accennati, rimane indelebile nella mente, così come nella mente dell’autore palestinese rimangono i ricordi della sua vita.


CAST & CREDITS

(The Time That Remains) Regia: Elia Suleiman; sceneggiatura: Elia Suleiman; fotografia: Marc-Andrè Batigne; montaggio: Véronique Lange; suono: Pierre Mertens, Christian Monheim; interpreti: Elia Suleiman (Elia), Saleh Bakri (Fuad), Leila Muammar (Thuraya), Yasmine Haj (Nadia); produzione: The Film/Elia Suleiman – Nazira Films/France 3 Cinéma/Artemis Productions/RTBF/BIM Distribuzione/Corniche Pictures; distribuzione: Le Pacte; origine: Palestina/Francia/Italia/Belgio; durata: 109’.


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