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IL TEMPO CHE RESTA

Pubblicato il 28 giugno 2006 da Alessia Spagnoli


IL TEMPO CHE RESTA

Il nuovo film di Ozon si apre con una condanna a morte senza possibilità di appello. Dal momento in cui il medico pronuncia la sua terribile sentenza è come se il protagonista, cui viene negato il diritto alla vita, acquisisse quello a smettere una dopo l’altra tutte le maschere progressivamente impostegli (di professionista, fidanzato, figlio e fratello modello) e cominciasse a guardare le cose in faccia e chiamarle col loro nome. Acquista cioè un diritto alla verità che lo porta a ferire a ripetizione, allontanandoli da sé, tutti quelli che vorrebbero invece stargli vicino. L’unico affetto cui può confidare la sua destabilizzante “novità” è la nonna, proprio perché, come le sbatte crudelmente in faccia, anch’ella è nella medesima condizione: anche lei sta per congedarsi dalla vita.
Magnifica, come sempre, la grande Jeanne Moreau nel ruolo piccolo ma intenso di questa signora anticonformista cui dona la sua grande forza, l’unico personaggio in grado di mostrare comprensione e solidarietà al nipote: ciò le è concesso proprio in virtù di una stessa brutale sincerità grazie alla quale può chiamare “istinto di sopravvivenza” quel che in generale si tende a liquidare e condannare come “puro egoismo”. Bravissimo anche Melvil Poupaud, col suo volto scavato e sofferente, a caricarsi interamente sulle fragili spalle l’intero peso del film, restituendo tutta la gamma di emozioni, anche quelle violentemente contraddittorie, che il suo difficile personaggio reca con sé.
Dato che non si può più andare avanti, allora si procede a ritroso nel tempo (come già nel precedente, ma meno riuscito, CinquePerDue) e il film finisce col riempirsi dei ricordi di Romain: soprattutto, è la sua infanzia che torna a fargli visita. Ad accrescere l’ironia della sorte, Romain è un fotografo professionista. Vale a dire uno che dovrebbe “immortalare” la vita per mestiere.
L’autore francese da lì in avanti comincia - o meglio, continua - il suo personale discorso su quanto siano spaventosamente fragili in realtà i rapporti interpersonali, proprio perché sono gli uomini in primis ad esserlo. La macchina da presa si dispone così a seguire questo sfortunato protagonista nel corso dei suoi ultimi giorni di vita, evitando movimenti inutilmente vistosi, con lo stile essenziale dei grandi maestri del cinema. Il tempo che resta comincia crudelmente a rallentare: Ozon riesce perfino a raccontare quegli attimi rarefatti in cui l’ampiezza di sguardo sul mondo si approfondisce ulteriormente e perfino due diverse dimensioni spazio/temporali arrivano a compenetrarsi.
Per il suo nuovo lungometraggio Ozon si è scelto un terreno particolarmente scivoloso, riuscendo tuttavia a rimanere in un equilibrio che ha del prodigioso. Il primo tempo scivola via compatto, senza la benché minima sbavatura. Nel secondo invece, si registra qualche piccola caduta di tono (il frammento con Valeria Bruni Tedeschi, un po’ troppo “facile” e, proprio per questo, fuori luogo). Il giovane cineasta recupera qui l’estetica di Jarman, l’uso di musiche sacrali su immagini terrene (quando non addirittura “blasfeme”) tipiche di tanto cinema di Pasolini e il tema dell’amore come lotta per la sopraffazione in cui una delle due parti, la più debole, è destinata a soccombere, autentico leitmotiv dell’opera fassbinderiana: come in un unico, commosso omaggio al cinema di tre grandissimi autori omosessuali. E qui viene fatto di pensare a quell’incomprensibile divieto ai minori di 18 anni (come si giustificheranno i censori nostrani? Il protagonista gay? O magari l’argomento “poco allegro”?), che unito al periodo di uscita nelle sale, “condanna” la pellicola a incassi davvero esigui. Di fatto hanno dimostrato la stessa fredda (e triste) indifferenza presente nel film. Si può addirittura morire in mezzo alla moltitudine, senza che questa si accorga di noi.

(Le temps qui reste) Regia: François Ozon; soggetto e sceneggiatura: François Ozon; fotografia: Jeanne Lapoirie; montaggio: Monica Coleman; musiche: XXX; scenografia: Katia Wyszkop; interpreti: Melvil Poupaud (Romain), Christian Sengewald (Sasha), Jeanne Moreau (Laura), Valeria Bruni Tedeschi (Jany), Marie Riviere (Madre), Daniel Duval (Padre), Louise-Anne Hippeau (Sophie); produzione: Olivier Delbosc e Marc Missonnier per Fidelitè Productions, France 2 Cinema; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia 2005; durata: 78’

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