IL TEMPO DEI LUPI

Pur confessando apertamente che amiamo ed ammiriamo l’opera di Michael Haneke, tuttavia non riusciamo proprio a capacitarci come mai questo Il tempo dei lupi sia venuto così male. O meglio, ci correggiamo, non male, ma in modo sciatto e ripetitivo rispetto a temi e motivi che con ben altra brillantezza e acume il bravo regista austriaco aveva a più riprese portato sullo schermo. L’ipotesi che la costruzione a tesi, l’incipit ideologico di questo film, sia responsabile del suo modesto funzionamento non ci convince del tutto, perché, a riguardare indietro tutte le opere precedenti di Haneke, esse, comunque, hanno funzionato su un dispositivo narrativo teleologicamente predeterminato e su un mood di Kulturpessimismus acquisito a priori. Forse qui, però, è lo stesso dispositivo della storia a non funzionare, a non lasciare margini di manovra sufficienti al dispiegarsi della fantasia geometrica del filmmaker austriaco. Haneke infatti è un regista-architetto, alla Fritz Lang, tanto per intenderci, che ha bisogno di spazi chiusi e di destini al bivio per applicare una progressione implacabile delle immagini e giungere alle sue dimostrazioni apodittiche. In Il tempo dei lupi, invece, tutto è già prestabilito sin dal principio: siamo in un mondo colpito da una qualunque catastrofe post-atomica o ecologica, dove regna il diritto del più forte, e la legge della sopravvivenza è l’unica a guidare una comunità in estinzione e in rapida regressione bestiale. L’argomento orwelliano è banale e molto, troppo sfruttato ma si guardi cosa è riuscito a farne da esso Danny Boyle nel suo 28 giorni dopo e ci si accorgerà quanto invece Il tempo dei lupi giri a vuoto nel continuare, episodio dopo episodio, passo dopo passo, a ripetere il Leitmotiv di un pessimismo cosmico nei confronti delle magnifiche e progressive sorti dell’Umanità, a cui oggi non crede più nessuno. Il principio della dialettica, il principio-speranza come direbbe il filosofo Ernst Bloch, qui viene espunto a priori dalla sceneggiatura ma così si evirano anche le possibilità e le feconde ambivalenze narrative del film. Che, allora, si riduce ad un mero accumulo di accadimenti “catastrofici”, l’uno inanellato di seguito dell’altro come fossero una collana di perle (nere). Ciò non impedisce naturalmente che il film di Michael Haneke non manchi di momenti emozionati (la grande sequenza finale ad esempio) o di digressioni riuscite né che non risalti grazie alla splendida fotografia di Jürgen Jürges ma è in sé e per sé che non funziona. O almeno è quanto ci è parso con vero, sincero dispiacere. Ad una prossima, migliore occasione.
[giugno 2004]
(Le temps du loup)
Regia e sceneggiatura: Michael Haneke; fotografia: Jürgen Jürges; montaggio: Monika Willi, Nadine Muse; scenografia: Christoph Kanter; interpreti: Isabelle Huppert, Maurice Benichou, Patrice Chéreau, Olivier Gourmet, Brigitte Rouan, Lucas Biscombe; produzione: Le Films du Losange/Wega Film/Bavaria Film/Arte France Cinéma/France 3 Cinema; origine: Francia/Austria/RFT 2003; durata: 113’; Distribuzione italiana: Bim;Web info: www.bimfilm.com
