In amore niente regole

Voilà la commedia sofisticata par excellence. La presenta George Clooney in gran spolvero: l’occhio sardonico e il sorriso accattivante di sempre, la battuta mai volgare e sempre sopra le righe, la sicurezza di un’ironia che salva da ogni situazione. Con un raccapricciante titolo italiano che allude più a basse commedie sentimentali che alle "teste di cuoio" del titolo originale, torna al cinema la macchina macina-soldi che si presenta alla porta con Martini e sorriso. Da sempre la commedia si addice all’attore di Lexington, impegnato al momento sul set del nuovo film di Wes Anderson, The fantastic Mr.Fox, dopo aver lavorato con gli amici di sempre, i fratelli Coen e il loro Burn after reading. L’attore “più sexy del mondo” firma la propria terza regia al cinema entrando prepotentemente, anche se con grazia, in una ipotetica classifica delle migliori, recenti, sophisticated comedies. L’epoca è quella post/prebellica del 1925, lo spunto: l’evoluzione del football americano professionistico da semplice lavoro sottopagato praticato da un nugolo di atleti improvvisati a sport raccogli-soldi, il tutto descritto nei primi vagiti di quella che diventerà una crudele macchina che tutto digerisce. Clooney impersona uno scanzonato giocatore di football insofferente alle regole, verrebbe da dire: la storia del nonno di Danny Ocean, viste le caratteristiche da “onesto” mascalzone dei personaggi che stanno facendo la fortuna del Clooney attore-regista-star impegnata politicamente. Un ritmo travolgente che si esplica nelle mischie nel fango dei campi di football, nella musica charleston che ne sottolinea l’epoca e nell’evidente debito verso le scene slapstick di Susanna, ma anche di Accadde una notte e di Scandalo a Filadelfia, nei dialoghi spumeggianti per Clooney quanto fulmicotonici e dal facile vetriolo per la rampante giornalista interpretata da Reneè Zellwegger. Il tutto risulta leggero e scanzonato, anche se calato in uno dei periodi più bui della storia statunitense, sprofondata nella recessione, con l’aria del crollo delle borse dietro l’angolo e un proibizionismo che sapeva di repressione di Stato.
Il compromesso dietro l’angolo si svela presto come frutto anche di scelta alimentare, un trend che sembra ultimamente aver contagiato molti autori statunitensi, forse “obbligati” dal sistema produttivo a sfornare prodotti più leggeri per potersi permettere di graffiare con film più personali. Tra questi, gli stessi fratelli Coen, ombre che Clooney non tenta di celare, e che vengono alla mente, pensando alle schermaglie dei tre evasi di Fratello dove sei? o alla commedia Ealing rivisitata nel più scialbo Ladykillers. Clooney si lascia dietro una vena autoriale che aveva senza troppa fatica iniziato a mostrare a partire dall’intricato e spesso criptico Confessioni di una mente pericolosa e dal ben più riuscito Good night and good luck. Il compromesso è insito nel tratteggio generale dei personaggi, più figure da commedia dell’arte che vere, sfumate psicologie. A partire dai personaggi di contorno: il cinico manager con il volto di Jonathan Pryce e il timido ma arrivista ex soldato.
Non un semplice amarcord cinefilo, comunque, ma un vero e proprio tentativo di riproporre un genere che possa stuzzicare i palati fini, coadiuvato dal blue-screen nelle scene sportive e dalla fotografia di Newton Thomas Sigel (Confessioni di una mente.., I fratelli Grimm, Superman Returns) che impasta colori caldi e morbidi facendoli virare verso il giallo (come se il colore del grano di per sé riportasse all’epoca in cui sono ambientati e di cui sono colorati I giorni del cielo di Malick o il citato O’ Brother dei fratelli di Minneapolis).
Grazie a una sceneggiatura che non prevede cadute di ritmo e funziona come un meccanismo ad orologeria, Clooney racconta un’America lontana dal Dream, ma già erosa dal suo feticcio. Il feticcio di un eroismo patriottico facile da svelare, ma utile per controllare le masse, incarnato dal personaggio del reduce di guerra reso “eroe” per la stampa quanto ingenuo nel farsi inglobare dal nascente impero mediatico che nega le sfumature e sacrifica la verità. Un discorso già felicemente proposto nel lontano 1962 da John Ford e il suo L’uomo che uccise Liberty Valance, ma che Clooney sa rendere con verve leggera e dissacrante. Clooney, è il caso di dirlo, si sporca le mani con un coraggioso “passo indietro” rispetto al ben più impegnato e impegnativo Good night and good luck, ma non tragga in inganno il fatto di essere approdato alla commedia slapstick. Humour e divertimento visivo fanno da filo rosso per l’autorialità clooneyana: una breve filmografia da regista che già evidenzia connessioni apparentemente lontane, ma accomunate da uno sguardo lucido e dissacrante sull’America.
La ricerca della Verità sembra unire i fili di questa variegata, ancor breve filmografia: anche qui il mondo dei media risulta al centro del “male”, fulcro di un cancro ormai endemico che non avrà mai fine e di cui Clooney, anche con Good night.., ci mostra nelle sue origini. Ma Leatherheads non vuole essere un pamphlet politico, almeno non ci riesce: diverte con le sue scazzottate senza sangue, gli incontri-scontri tra i due protagonisti (alchimia perfetta tra i due attori), il suo finale prevedibile. Onesto, leggero, divertente quanto basta. Per meglio apprezzare, si consiglia di scordare che dietro la macchina da presa ha seduto lo stesso regista di Good night and good luck.
(Leatherheads); Regia: George Clooney; sceneggiatura: Duncan Brantley, Rick Reilly; fotografia: Newton Thomas Sigel; montaggio: Stephen Mirrione; musica: Randy Newman; interpreti: George Clooney (Dodge Connelly), Renée Zellweger (Lexie Littleron), John Krasinski (Carter "the bullet" Rutherford), Jonathan Pryce (CC Frazer); produzione:Universal Pictures, Smokehouse Pict., Casey Silver; distribuzione: Universal Italia; origine: Usa, 2008; durata: 114’; webinfo: Sito italiano
